coronavirus
L'ossessione per i dati è la nostra nuova malattia
I numeri al tempo del coronavirus sono diventati un’ossessione: cestinati come roba da cervelloni fino a poche settimane fa, sono diventati il nostro pane quotidiano, tanto da essere argomento di discussione a cena per chi vive in famiglia o su WhatsApp con gli amici per chi è solo. Ma, come diceva qualcuno, il rischio è quello di utilizzare le statistiche come un ubriaco usa i lampioni: più per sostegno che per illuminazione.
L’ansia di dati
I numeri sono diventati la nostra nuova coperta di Linus in questi giorni segnati dalla pandemia di coronavirus: ogni sera ci aggrappiamo ai dati forniti dalla Protezione Civile alla ricerca, chi di conferme, chi di speranze, ma tutti con una morbosità più o meno conclamata. E così, mentre la curva dei contagi fa il suo corso, un altro virus si aggira per le nostre case e si insinua tra le pieghe della nostra vita quotidiana stravolta dalla quarantena: quello della paura e dell’ansia.
Non sappiamo come maneggiarli questi numeri, che crescono, diminuiscono, si rincorrono e si smentiscono. Non c’è nemmeno una linea generale seguita da tutti gli esperti su interpretazione e raccolta dei dati, come nel caso del calcolo della letalità reale del Covid-19, la malattia provocata dal Sars-CoV-2 o nuovo coronavirus, che per il nostro Paese appare così “fuori scala” rispetto, ad esempio, alla Cina o alla Germania. Intanto tracanniamo numeri come tanti bicchieri di vino, uno dopo l’altro, fino a ubriacarci. Ma come col bere alcol, anche in questo caso, dovremmo farlo responsabilmente.
L’incertezza come certezza
Ricordarsi che i numeri non sono nient’altro che numeri è il primo passo per uscire dalla fame di dati. Dati che arrivano al consumatore, se non confusi, almeno imprecisi, considerando che è impossibile testare la positività al coronavirus dell’intera popolazione. Di solito, infatti, è sottoposto al tampone solo chi presenta sintomi gravi, mentre gli asintomatici o chi ha sintomi lievi viene escluso dal conteggio.
La conseguenza è che la letalità reale dell’infezione da coronavirus, ottenuta dividendo il numero dei morti per il numero di casi certi, potrebbe essere molto più bassa di quella calcolata con i dati attualmente in nostro possesso. Questo non riduce la portata della crisi, ma la mette nella giusta prospettiva. È necessario, dunque, iniettarci i giusti anticorpi a questi numeri ballerini in un momento in cui tutto appare «certo, certissimo, anzi… probabile».
Segui Videodrome su Instagram.