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Il suicidio è la terza causa di morte tra i giovani. E sono quasi tutti maschi
In Italia è difficile parlare di suicidio. C’è il rischio di essere tacciati di allarmismo o, peggio, di incitamento. Eppure, oggi il suicidio è la terza causa di morte tra i giovani nella fascia d’età 15-29 anni e le Nazioni Unite hanno inserito la lotta a questo fenomeno tra gli obiettivi da raggiungere per il 2030. In Italia il 78,8% dei circa 4mila suicidi l’anno sono uomini. Una percentuale così schiacciante da far intravedere uno schema legato al genere. Ne abbiamo parlato col dottor Marco Crepaldi, psicologo sociale fondatore di Hikikomori Italia, da tempo impegnato nel campo delle problematiche maschili, e con la dottoressa Patrizia Montalenti, direttrice di Ankyra, centro italiano antiviolenza che accoglie per il 90% uomini.
Le storie di suicidio e di chi resta
«Ho sofferto di depressione grave per otto anni» racconta G. «Penso al suicidio dai tempi delle medie, più volte al giorno, lettere di addio recitate in mente, ma ogni giorno pensavo “non posso fare questo ai miei genitori, preferisco soffrire altri mille anni che dare un dolore del genere a loro”». Purtroppo non sempre la spinta suicidaria resta un pensiero. Il figlio di M. aveva 18 anni quando, una domenica pomeriggio, è salito al sesto piano del loro condominio e si è gettato nel vuoto. «La prima a vederlo sono stata io, chiamata da un vicino che da sotto suonò il campanello. Ricordo che appena lo vidi non pensai che fosse morto, pensai a un colpo di sole… quando capii, lo baciai dolcemente e restai un po’ vicino». M. ha trovato il sostegno di Soproxi, l’associazione guidata dal professor Socco che opera in Italia per prevenire i suicidi e sostenere i parenti delle vittime. Il suicidio è un atto che lascia dietro di sé profonde ferite e un vuoto irriducibile nelle famiglie delle vittime. Il figlio di M. si era innamorato senza essere corrisposto. Quando si è ucciso il lutto della madre è stato tutt’uno col senso di colpa: «Il dolore mi saliva dentro assieme alla consapevolezza di non essere stata capace di aiutare quel mio figlio così forte da superare tante difficoltà, ma così buono e fragile di fronte alla vita. Come madre avevo creduto di far bene a rispettare i suoi silenzi invece di indagare». Nel mondo i suicidi sono un milione ogni anno, uno ogni quaranta secondi. In Italia, secondo le ultime rilevazioni, circa 3.800, spesso accompagnati, come nel caso di G., da problemi pregressi e irrisolti. Di questi più di 3.300 sono uomini.
Perché l’80% dei suicidi è uomo
Perché otto suicidi su dieci sono uomini? «Le macromotivazioni possono essere tante» risponde a VD lo psicologo sociale Marco Crepaldi che da tempo si occupa di problematiche maschili. «Io penso che siano soprattutto collegate all’incapacità dell’uomo di chiedere aiuto e quindi di andare molto meno in terapia. Il ruolo di genere maschile impone sicurezza, maggiore forza e dissimulazione del dolore. Gli uomini sono più riluttanti a parlare delle proprie sofferenze psicologiche con amici, parenti e partner. Il ruolo di genere maschile disincentiva la richiesta di aiuto». Richiesta d’aiuto che è determinante per evitare l’esito suicidario. In particolare nel caso della depressione che è «la patologia che quasi sempre precede l’atto autolesionista» e che colpisce un uomo su quattro, come rilevato da un’indagine di VD pubblicata ad agosto. «Poi tanti studi mostrano come gli uomini, proprio a causa di questa loro difficoltà nell’espressione delle emozioni facciano più fatica a creare legami profondi e intimi con gli altri. Mediamente le donne sono più pronte a creare legami quindi ad avere una rete sociale a cui fare affidamento. Gli uomini, invece, spesso tengono tutto dentro e quindi finiscono per implodere. Che gli uomini siano tendenzialmente più soli è testimoniato anche dal fenomeno degli hikikomori, di cui mi occupo da otto anni con la mia associazione Hikikomori Italia, e che sono per il 70/80% maschi». L'incapacità dell’uomo di trovare aiuto ha, quindi, radici individuali ma anche sociali. Il maschio sarebbe vittima di un empathy gap: la difficoltà di suscitare empatia nel resto della comunità. «Basti considerare che quando un uomo subisce violenza», commenta il dott. Crepaldi, «mediamente la società empatizza meno. Questo fa sì che la rete sociale intorno agli uomini sia più debole» perché lo stereotipo sociale di genere vede l’uomo come «soggetto forte, capace di cavarsela, che non ha bisogno di aiuto e così disincentiva le altre persone al supporto». L’isolamento sociale e la mancanza di una rete attiva sono fattori all’apparenza determinanti: «Io ritengo che il suicidio sia un fatto sociale» ci dice la dott. Patrizia Montalenti, fondatrice di Ankyra, richiamandosi a Emile Durkheim. «Lui aveva dato una svolta allo studio del suicidio dandogli una connotazione sociale e non biologica». Nel centro antiviolenza Ankyra «abbiamo accolto 690 persone finora, per il 90% uomini, nessun suicidio, ma tanti che ci hanno pensato. La possibilità di fare rete nel centro ha dissuaso i moltissimi aspiranti suicidi tra gli uomini maltrattati». Purtroppo Ankyra è praticamente l’unico centro (affiancato da altri due nati da poco) che si occupa di uomini vittime di violenze in Italia. «Molti di loro mi dicono di aver pensato di farla finita» ci racconta Patrizia Montalenti. «Il più delle volte sprofondano in una depressione che è corroborata da questa sensazione di inutilità che un uomo crede di avere». Secondo alcuni studi l’alto tasso di suicidi tra gli uomini sarebbe imputabile anche al ricorso a metodi autolesionisti più violenti e, quindi, più letali. «Però dire che gli uomini sono più bravi a uccidersi» commenta il dott. Crepaldi «è offensivo». Per Crepaldi il discorso è più complesso: «Chi tenta il suicidio spesso lo fa più volte e magari non ci riesce la prima volta, quindi la domanda è: perché alla fine sono soprattutto gli uomini che riescono a uccidersi?». Proprio l’empathy gap sarebbe la chiave: più isolati e con maggiori difficoltà a chiedere e ricevere aiuto, gli uomini finirebbero con l’uccidersi più facilmente.
Una strategia nazionale contro il suicidio
Che riguardi gli uomini o le donne, il suicidio resta una delle maggiori cause di morte giovanile nel mondo e la pandemia non ha migliorato la situazione, come rilevato dal dottor Stefano Vicari dell’Ospedale Bambino Gesù. In Italia, durante questo difficile 2020, sarebbero aumentati gli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio proprio tra i più giovani. Un campanello d’allarme per l’Italia, paese a basso rischio ma che continua a non avere una strategia nazionale per affrontare il fenomeno. Il lavoro da fare sarebbe, prima di tutto, culturale e poi politico: «Dobbiamo eliminare lo stigma sociale sulle malattie mentali», propone il dott. Crepaldi, «e istituire uno psicologo di base. Oggi per andare da uno specialista devi pagare tanto e non tutti se lo possono permettere. Molti ragazzi, anche essendo disponibili a chiedere aiuto superando lo stigma, si sentono in colpa a far spendere soldi alla famiglia. Anche perché sono percorsi lunghi che non si risolvono in due o tre sedute ma possono durare anni. È paradossale che quando parliamo dell’eccellenza della sanità pubblica italiana intendiamo sempre e solo quella fisica».
Come chiedere aiuto
Se pensi di voler chiedere aiuto per te, un tuo familiare o un tuo amico, in Italia esiste un Telefono Amico (02 23272327) e una pagina web dedicati alla prevenzione dei suicidi. L’intervento preventivo è fondamentale, in particolare se riconosci i segnali di allarme:
- Pensieri di morte
- Umore depresso
- Cambiamenti di comportamento o di umore repentini
- Alterazioni delle abitudini
- Aspetto esteriore trascurato
- Isolamento individuale e sociale
- Aumento del consumo di alcool e droghe
- Autolesionismo
- Storie di traumi e abusi o suicidi di familiari
- Precedenti tentativi di suicidio
- Tendenze impulsive e/o aggressive
- Perdita di lavoro o di ingenti quantità di denaro
- Mancanza di relazioni sociali
- Facile accesso ad armi
- Mancato accesso alle cure
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