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Il mio ragazzo era impotente. E ora ci sposiamo

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Era la prima volta per entrambi. Qualche giorno prima gli avevo “confessato” di essere vergine e avevamo deciso di provare, con la debita calma: era vergine anche lui, mi aveva spiegato, eppure la notizia non mi aveva preoccupata. Anzi, per certi versi mi sembrava un dettaglio dolce e tenero - non mi sarei sentita giudicata o acerba, avremmo scoperto l’intimità insieme.

Castità forzata

Eppure, quando andai a casa sua e il momento arrivò, lui non riuscì a mantenere l’erezione. Ma ero comunque innamorata, felice, su di giri, perché stavo scoprendo un nuovo lato di me con una persona a cui tenevo. Inesperta com’ero, e desiderosa che tutto andasse bene, liquidai l’episodio come ansia da prestazione. Ma presto la realtà mi ripresentò il conto, perché continuammo a fallire. Perdeva l’erezione, e finivamo per accoccolarci a letto stanchi, tristi, confusi. Nessuno dei due aveva gli strumenti per capire la situazione: io ero un’idealista romantica che aveva aspettato per molto tempo l’uomo giusto, lui un insicuro dal cuore d’oro ma dalla scarsa esperienza. Aveva avuto una famiglia iperprotettiva che, in qualche modo, aveva contribuito a castrare la sua sessualità, a farlo sentire inadeguato rispetto al piacere.

L’aiuto dell’esperto

Ma queste sono considerazioni da psicologia da bar. Risolvere il problema è un’altra cosa. Per un uomo, accettare le proprie disfunzioni a livello sessuale è particolarmente umiliante, perché la società lo vorrebbe come una macchina del sesso, un maschio alfa che non deve indugiare mai. Per tutto il primo anno lui tentennò, e l’incapacità - nostra - di ammettere la necessità di uno specialista incrementò la tensione: magari andavamo a cena e lui si stendeva sul letto con aria apatica, non accennando neppure a toccarmi. Questo all’inizio non succedeva; lentamente ma inesorabilmente, il petting era diventato un rituale stanco che sfumava nel nulla. Nel corso del secondo anno, accortosi della mia tristezza perenne, decise di farsi prescrivere degli esami medici. Manco a dirlo, le analisi erano perfette. Mi spaventai. Sapevo che gli iter psicologici erano i più complessi, tortuosi e sfiancanti - avrei quasi voluto che il problema fosse organico, che si potesse prendere una pillola e via. Quell’anno litigammo spesso e fummo sul punto di chiudere più e più volte; il rapporto procedeva a singhiozzi, la nostra comunicazione era pari a zero. E ciononostante, sapevo di aver visto qualcosa in lui che non avevo trovato in nessun altro.

Degni di dare e accettare piacere

A metà del terzo anno decise di rivolgersi a un sessuologo: non volli entrare nel merito di quelle sedute e non seppi mai, nello specifico, di cosa parlasse durante quegli incontri. Sentivo che aveva la necessità di ritagliarsi dello spazio per sé, per capire la sua identità di uomo adulto, capace di “amare e lavorare”; per dirla con Freud. Il percorso è durato circa un anno e, pur non risolvendo la situazione in modo immediato, ha avuto un’importanza chiave. Erano trascorsi quattro anni dal nostro primo incontro quando riuscimmo ad avere dei rapporti sessuali, e da allora il suo modo di vivere la propria intimità è cambiato: adesso parla di sesso liberamente, e riesce a coniugare sensualità e tenerezza. Soprattutto, si sente degno di dare e ricevere piacere. Le mie amiche mi dicono che sono stata “eroica”, ma ripensando a quegli anni so di essere stata tutt’altro che temeraria. La mia femminilità era vacillante e mi sentivo poco attraente, indesiderabile. Credo, comunque, che i ragazzi con questi problemi non debbano risolverli per le proprie compagne ma per sé stessi. A loro dico: rivolgetevi a un professionista quanto prima. Non è una macchia sulla vostra virilità: siete persone, non predatori.

La sessualità secondo Dacia Maraini

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