migranti
3 e 11 ottobre 2013: quei due naufragi che condannarono l'Italia
Sono le 15.37 dell’11 ottobre 2013. «[Nave Libra] non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette [maltesi]... che sennò questi se ne tornano indietro». È quanto ordina Luca Licciardi, 47 anni, capo sezione attività correnti della sala operativa del Cincnav, il Comando in capo della squadra navale di via della Storta a Roma. Eppure la nave italiana Libra è l’unità più vicina al peschereccio con a bordo 480 profughi siriani che sta affondando a 61 miglia a Sud di Lampedusa. Solo pochi giorni prima, il 3 ottobre, sempre davanti all’isola, erano morte 368 persone tra uomini, donne e bambini. 360 scappavano dal regime dittatoriale di Isaias Afewerki. Un altro viaggio di sola andata, attraverso il cimitero Mediterraneo.
La strage del 3 ottobre 2013
Il peschereccio con a bordo eritrei ed etiopi salpa dal porto libico di Misurata il 1° ottobre 2013. A poche miglia dall’Isola dei conigli, imbarcazione comincia ad accusare le prime difficoltà: il motore è in panne e l’acqua comincia a salire. Ma nessuno interviene. Il peschereccio Aristeus di Mazara del Vallo si trova vicino all’imbarcazione ma prosegue la sua rotta. I sette membri dell’equipaggio si difenderanno davanti al giudice dicendo di non essersi accorti del pericolo. «In quelle condizioni, le urla e le grida dei naufraghi si sarebbero sentite a distanza di 500 metri o forse di un chilometro», dirà invece il giudice. L’equipaggio dell’Aristeus sarà condannato in primo grado per omissione di soccorso. Anche altri ignorano le richieste d’aiuto che provengono dall’imbarcazione con i profughi.
«Siamo partiti due giorni fa dal porto libico di Misurata, - hanno raccontato alcuni superstiti - su quel barcone eravamo in 500. Non riuscivamo nemmeno a muoverci. Durante la traversata tre pescherecci ci hanno visto ma non ci hanno soccorso». «Erano da poco passate le 6 del mattino, ho sentito le urla e sono uscito dalla cabina», dirà Vito Fiorino, proprietario del Gamal, un piccolo peschereccio. «È stato l’inferno, c’erano centinaia di migranti in acqua. Qualcuno si aggrappava ai cadaveri o alle bottiglie d’acqua per cercare di restare a galla. Ho iniziato con gli altri componenti dell’equipaggio e fatto salire quanti più possibili naufraghi, alla fine ne abbiamo salvati quarantasette». La guardia costiera, invece, impiegherà un’ora prima di arrivare sul luogo del disastro. Da parte sua, il mare continuerà a restituire corpi ancora per 15 giorni. «I bambini morti che abbiamo raccolto indossavano i vestiti più belli, le scarpette nuove con le suole non ancora lise», racconterà ai giornalisti Pietro Bartolo, al tempo responsabile del poliambulatorio di Lampedusa.
Il naufragio dei bambini
È passata poco più di una settimana dal naufragio del 3 ottobre. A largo di Lampedusa, c’è un peschereccio partito dalla Libia con 480 persone, crivellato dalle raffiche di mitra. Mohamed Jammo, medico siriano a bordo del barcone, chiama la sala operativa della Guardia costiera italiana. Dice che l’imbarcazione sta affondando e che rischiano di morire molti bambini. La guardia costiera italiana, però, comunica ai profughi di rivolgersi a Malta, a 118 miglia di distanza dal peschereccio. «Stiamo morendo, ci sono bambini. Vi prego venite in fretta», implora Jammo. Ma all’altro capo del telefono inizia il rimpallo delle responsabilità. Nave Libra, pattugliatore della Marina Militare italiana, è lì, a sole 10 miglia, circa un'ora e mezza di navigazione. E in quel tratto di mare resta per cinque ore, in attesa di ordini da parte di Roma. L’imbarcazione con a bordo i profughi si ribalta. Moriranno 268 persone, tra cui 60 bambini.
Le responsabilità italiane
L’11 ottobre 2013 gli italiani smettono di essere brava gente. A sette anni di distanza, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha ritenuto l’Italia responsabile della strage di Lampedusa dell’11 ottobre 2013. Secondo il documento, pubblicato il 27 gennaio scorso dal Comitato, «l’Italia non è riuscita a proteggere il diritto alla vita» delle persone a bordo del peschereccio. «L’azione ritardata dell’Italia ha avuto un impatto diretto sulla perdita di centinaia di vite». Sempre a gennaio, si è aperto il processo contro gli ufficiali che allora ricoprivano ruoli di comando rispettivamente nella Marina Militare e nella Capitaneria di Porto. Le accuse sono di omissione di atti d’ufficio e omicidio plurimo aggravato. Ma intanto nel Mediterraneo si continua a morire di speranza e di futuro.
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