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150 intellettuali hanno firmato una lettera aperta contro la cancel culture

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I mesi dopo la quarantena e la morte di George Floyd hanno fatto esplodere, nel mondo occidentale, tutte quelle contraddizioni che da anni bruciavano sotto le ceneri. L'omicidio di Floyd e di molti altri afroamericani come lui, hanno scatenato la più grande protesta di massa della storia americana, generando un effetto valanga che ha portato un cambiamento di percezione in tutto l’estabilishment produttivo e politico occidentale. Ma le proteste, che avrebbero potuto indurre a a una revisione totale del nostro approccio sociale, grazie, in particolare, al movimento Defund the police che ha messo in dubbio, finalmente, la teoria delle finestre rotte di stampo reaganiano, si sono invece arenate in nuove forme di censura e autocensura fortemente influenzate dalla natura reazionaria e polarizzante di quest’epoca.

Il problema dell’opinione pubblica

In Storia e critica dell’opinione pubblica, il filosofo Jürgen Habermas sottolinea la tendenza a polarizzarsi di ogni dibattito pubblico. Questa dinamica è tanto più forte in un’epoca come la nostra, dove tutto diventa oggetto di discussione pubblica, quando non di massa, attraverso i social network. La discussione, oggi, finisce spesso per naufragare in un’opposizione netta tra tribù le cui prese di posizione diventano sempre più estreme ed esasperate. Questa dinamica ha coinvolto anche le recenti discussioni in merito all’antirazzismo, al politically correct e alle discriminazioni di genere e orientamento sessuale, scatenando gogne pubbliche e l’emersione, attraverso i grandi colossi mediatici, di nuovi standard culturali. Una tendenza che sembra aver già distorto gli ideali iniziali: l’ultimo caso è quello di Jeanine Cummins, autrice irlandese/portoricana accusata di “appropriazione culturale” per aver scritto un romanzo con una protagonista messicana, che ha dovuto annullare il proprio tour di promozione a causa dei boicottaggi e delle proteste. Le voci contrarie a questa nuova censura hanno iniziato a levarsi da alcuni intellettuali di grande fama, che hanno firmato una lettera aperta per il magazine Harper’s: Noam Chomsky, Roger Cohen, Francis Fukuyama, il campione di scaccchi Garry Kasparov, Margaret Atwood e lo scrittore Salman Rushdie, che di censura ne sa qualcosa.

La lettera sulla giustizia e il dibattito aperto

La lettera inizia affermando che stiamo affrontando un momento storico per le richieste di riforma della polizia e per una «maggiore uguaglianza e inclusione nella società» sottolineando, però, anche l'intensificazione di «una nuova serie di atteggiamenti morali e impegni politici che tendono a indebolire le nostre norme di dibattito aperto e tolleranza delle differenze a favore del conformismo ideologico». La chiusura, l’atteggiamento censorio, l’assenza di un dibattito vengono respinti dai firmatari che scrivono: «Le forze dell'illiberismo stanno guadagnando forza nel mondo, e hanno un potente alleato in Donald Trump che rappresenta una vera minaccia alla democrazia. L'inclusione democratica che vogliamo può essere raggiunta solo se facciamo sentire la nostra voce contro il clima intollerante che ha preso piede in tutte le parti». Clima che è, in effetti, comune denominatore di quest’epoca. «Il libero scambio di informazioni e idee, linfa vitale di una società liberale, sta diventando sempre più limitato». La lettera continua facendo notare che le richieste censorie o le «richieste di punizioni rapide e severe in risposta a trasgressioni percepite come tali del linguaggio e del pensiero» che ci aspetteremmo dalla destra radicale, si stanno diffondendo anche agli ambienti più progressisti, col risultato «di restringere costantemente i confini di ciò che si può dire senza la minaccia di rappresaglia».

Non esiste giustizia senza libertà

«Questa atmosfera soffocante alla fine danneggerà le cause più vitali del nostro tempo. La restrizione del dibattito, da parte di un governo repressivo o di una società intollerante, fa invariabilmente male a chi non ha potere e rende tutti meno capaci di partecipazione democratica. Il modo per sconfiggere le cattive idee è attraverso l'esposizione, l'argomentazione e la persuasione, non cercando di zittire o desiderando che spariscano». Questo atteggiamento rivela la deriva del politically correct: nato come linguaggio sicuro e inclusivo, conquista dei movimenti universitari e multiculturali di fine Novecento, è oggi tracimato in un sistema esclusivo e conformista non molto diverso dal benpensantismo del secolo scorso. «Dobbiamo preservare la possibilità di essere in disaccordo in buona fede senza terribili conseguenze professionali, rifiutando la falsa scelta tra giustizia e libertà, che non possono esistere l'una senza l'altra».

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