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musica

Da idoli del Rock a idoli col Rolex

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Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta si diffonde a Seattle un genere che mescola l’impatto musicale devastante del punk con la melodia del rock classico. I suoi autori sono giovani della working class americana, vengono da contesti sociali difficili, consumano droghe e cantano la disperazione di una generazione senza futuroLa rabbia di quelle canzoni brevi, cantate da voci sporche e stanche si fonde con la poesia dei testi che parlano di tematiche sociali e politiche, ma anche dell’insensatezza di una vita passata a consumare, lavorare e poi morire. Fu l'ultima stagione del rock, iniziato da personaggi come Jim Morrison e Mick Jagger, prima che il nuovo millennio spazzasse via tutto.

Dai garage ai palchi del mondo

Il genere si chiama grunge, e i suoi esponenti principali sono i Nirvana, capitanati da Kurt Cobain, perfetto esempio di quel white trash americano destinato a una vita di sfruttamento e sofferenza, che diventa una rockstar ma decide di porre fine alla sua vita a 27 anni. Il grunge, come molta altra musica rock “popolare”, nasce nei garage e si sviluppa nei club underground ma il successo commerciale di band come Alice in Chains, Mudhoney, Pearl Jam e degli stessi Nirvana coincide inevitabilmente con il suo declino.

Rabbia e poesia, il carburante della musica anni Novanta

Conciliare un’estetica basata sul fortunato incontro di punk, rock e protesta sociale con i record di vendite è difficile: e il suicidio di Cobain lo dipinge come un musicista che ha preferito rinunciare alla vita piuttosto che piegarsi alle logiche di un effimero successo. Mentre l’afflato del grunge esplode e poi si affievolisce, un altro genere si afferma definitivamente in America, lontano dalla disillusione disperata di Cobain e simili. L'Hip Hop dei '90 è ritmato, violento, le rime si affilano e il beat scandisce le strofe di questi giovani afroamericani che rivendicano con fierezza la loro fame di vita e di ricchezza.

L'hip hop fu una rivoluzione culturale

Fame che, per saziarsi, fagocita qualunque cosa: in particolare gli esponenti del Gangsta rap sono spesso ex-spacciatori, violenti pregiudicati, figli di una strada che li cresce senza pietà. Sognano l’emancipazione, l’uscita da quel “paradiso dei gangster” e la scalata alle grandi ville di Hollywood, in cui poter trovare quella nervosa e precaria pace data dalla ricchezza spropositata. Anche l'hip hop di quegli anni ha il suo eroe caduto, Tupac Shakur, ucciso in un agguato, probabilmente per via del suo coinvolgimento negli affari delle gang locali, che finirà per degenerare la storica faida East Coast-West Coast portando via di lì a poco anche The Notorious B.I.G.

Il rap diede inizio a una nuova forma di poesia

Se i figli del grunge parlavano a una generazione X spezzata e senza speranza, i rapper predicano l’emancipazione spesso attraverso la ricchezza e l’ostentazione. Gli afroamericani, discriminati e vessati negli anni della Rivolta di Los Angeles, hanno un solo diritto a cui appellarsi: quello della vita, che va difeso con la pistola e col talento. Oggi il grunge si è spento, i pochi superstiti non fanno più paura e non riescono più a parlare come un tempo alla generazione contemporanea, non meno spenta e disperata. I giovani degli anni Duemila trovano la soluzione alle loro ansie interiorizzate nel figlio illegittimo del rap, la trap. Un genere che trasforma il grido di dolore della generazione precedente nel lamento di ragazzi viziati e insoddisfatti, ai quali, però, è stato rubato il futuro esattamente come ai loro genitori e fratelli maggiori.

Gli idoli di oggi hanno perso l'iconoclastia

Se negli anni Ottanta e Novanta i giovani si identificavano con la disperazione senza uscita, gridata e distorta dalle chitarre grezze dei Nirvana, o cercavano un riscatto attraverso le rime arrabbiate  dei ragazzi di strada, la generazione Z, cresciuta a pane e smartphone in un contesto sociale distante dalle strade di Seattle o Atlanta, si identifica nella vacua apparenza dei trapper. Personaggi pubblici, quando non veri e propri influencer, a cui spesso importano poco le istanze sociali; alcuni provengono da contesti sociali medi o addirittura alto borghesi, credono nel potere del denaro, e cercano di distinguersi per ciò che hanno più che per ciò che fanno. Il fascino del perdente, che si rialza e ottiene le sue vittorie sociali,oppure entra nel mito togliendosi poeticamente la vita, è roba per vecchi, per poeti maledetti, per baby boomers mai cresciuti.

I giovani Z vogliono identificarsi con i ricchi e i vincenti

La trap è forse più affilata del rap nella forma, ma paradossalmente più soft nei contenuti. Lo dimostrano le radio invase dalle hit dell’estate frutto di qualche collaborazione (pensiamo a Calipso di Charlie Charles, featuring Sfera Ebbasta, Mahmood e Fabri Fibra) o dell’ingegno di un produttore, che ha capito come far passare per tutte le radio quello che un tempo era un genere “proibito”. Quando il rap faceva paura alla società (ripensiamo agli NWA arrestati a Detroit dopo il concerto), ascoltarlo con gli amici e uno stereo era la soluzione: ora che esiste la trap a epurare il genere della sua carica eversiva in favore di una più rassicurante vacuità, tutti possono ascoltarlo e ballarlo. La consacrazione come genere musicale mainstream è arrivata con la presenza di ben due trapper alla scorsa edizione del Festival di Sanremo.

La trap è una musica borghese per ascoltatori griffati

Achille Lauro e il vincitore Mahmood, nonostante le polemiche, hanno ricevuto l’approvazione della dirigenza Rai, che li tiene in palmo di mano e ne segue con attenzione le carriere, snobbando invece i più scapestrati Dark Polo Gang e Sfera Ebbasta, quest’ultimo finito al centro delle polemiche per la sua annunciata presenza nel locale della strage di Corinaldo e soprattutto per la sua ingenua gestione dello scandalo sui social. Tuttavia, la trapha avuto anche il merito di dare voce a molti artisti di origini straniere che vivono sulla loro pelle le difficoltà dell’integrazione. Attraverso la musica conquistano un posto da cui parlare ai loro coetanei, seppure molti a un livello culturale piuttosto basso di cui, d’altro canto, non hanno colpa. La trap infatti non è solo figlia del rap, ma soprattutto di una società dell’apparenza, lobotomizzata dal denaro, dall’ansia sociale e dalla progressiva incapacità di instaurare relazioni con il prossimo.

La felicità secondo Kurt Cobain

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