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Gioia Tauro: viaggio nel porto franco della 'ndrangheta
Percorrendo la Calabria dal Pollino allo Stretto, lungo la celebre Salerno – Reggio Calabria, il paesaggio mostra immediatamente i segni del distorto processo di modernizzazione che negli ultimi trent’anni ne ha profondamente mutato l’aspetto. Lungo la mulattiera dagli infiniti lavori in corso, il selvaggio contrasto paesaggistico del verde dei boschi e del blu marino, è subalterno a costellazioni di capannoni industriali abbandonati e luccicanti centri commerciali. Coste stuprate da una scriteriata cementificazione e reperti da prima rivoluzione industriale intervallati da una natura ancora in parte selvaggia e incontaminata.
Gioia Tauro, il porto della 'ndrangheta
In questo paesaggio da profondo sud, si staglia il megaporto di Gioia Tauro. Il terzo porto di transhipment d’Europa, il primo del Mediterraneo, progettato negli anni '60 come porto industriale del mai realizzato centro siderurgico di Reggio Calabria e inaugurato nel 1992 con la definitiva destinazione di terminal – hub per containers. Punta di diamante di quello che doveva essere il progetto di modernizzazione e industrializzazione della penisola calabro-lucana, il porto nasce da un’idea della Contship Spa, che a scopi di tutela e garanzia della buona riuscita dell’opera, machiavellicamente non può e forse non vuole considerare alla stregua di ostacoli le ‘ndrine che popolano la Piana.
La supercosca Piromalli – Bellocco – Pesce, per l’occasione federata in un unico cartello, non si accontenta di una tassa sulla “sicurezza” di un dollaro e mezzo per ogni container sbarcato, ma allunga i suoi tentacoli mortali su tutte le attività produttive afferenti all’area portuale: dalla gestione dello scalo alle assegnazioni dei terreni dell’area industriale, dall’assunzione della manodopera alla distribuzione e spedizione delle merci, fino al controllo dello stoccaggio dei containers e la regolazione dei rapporti con i sindacati e le istituzioni. Un peccato originale di corruzione e malaffare che ha trasformato il porto di Gioia Tauro nello scalo privilegiato della ‘ndrangheta per i suoi colossali traffici illeciti. In altre parole, la porta di ingresso di cocaina, armi e rifiuti tossici in Europa. I numerosi e diversificati avamposti di legalità nell’area portuale (Procura di Palmi, DDA, Guardia di Finanza, Agenzia delle dogane) sono impegnati strenuamente in una lotta impari, che necessiterebbe di un dispiegamento di forze ancor più straordinario e imponente.Negli ultimi anni i controlli sono stati potenziati e raffinati, ma la montagna è ancora tutta da scalare. A fronte di tre milioni di tue circolanti in un anno, solo cinquemila di questi sono ispezionati dagli investigatori, che attraverso pre-controlli incrociati riescono a setacciarne 500 al mese. Da qui il dato sconfortante – riportato dalla Procura di Palmi- secondo cui per ogni container sequestrato, ce ne sono nove che giungono a destinazione.
Bollettini di guerra da Gioia Tauro
Dal porto di Gioia Tauro arrivano quotidianamente dispacci simili a bollettini di guerra, notizie fotocopia che variano solo per la quantità di polvere bianca sequestrata. E per i mirabolanti nascondigli, ogni volta più bizzarri e particolari. I narcos meno fantasiosi hanno occultato la polvere bianca tra banane, fagioli, legname, zucchero. Quelli dotati di maggior ingegno hanno utilizzato carrelli per uso agricolo, come nel 2010 nel caso del sequestro record di 10 quintali, realizzato dopo una giornata intera passata dai Ros con la fiamma ossidrica. I Narcos hanno trovato nella ndrangheta un partner solido ed affidabile a cui affidare l’oro bianco del Sud America: dai los Zetas Messicani ai cartelli di Calì e di Sinaloa, sono molteplici i legami tra i trafficanti e i gringo calabresi.Ma la merce scottante non è solo la cocaina. Il porto di Goia Tauro accoglie il 40% del mercato mondiale riservato all’Europa, ed è facile pensare come in una stagione dove i criminali sotterrano quintali di monnezza sotto terra, il mercato nero dell’area portuale si sia allargato ad un traffico illegale redditizio almeno come quello della cocaina: quello dei rifiuti illeciti.
Il business dei rifiuti
Battezzato nel gennaio del 2006 con la scoperta di un carico illegale di materiale plastico:
- 740 tonnellate di rifiuti di plastica
- 1.500 tonnellate di metalli
- 150 tonnellate di contatori elettrici
- 10 tonnellate di componenti pneumatici usurati e di componenti automobilistici
E con in mezzo dieci anni di altre 20.000 tonnellate di rifiuti tossici sequestrati, diretti in parte verso il continente nero, in parte verso la profonda Asia, in paesi dove i materiali di scarto delle industrie italiane vengono lavorati in immondi laboratori e trasformati nella merce della più svariata natura.Che ritorna nelle nostre case sotto forma di uno smartphone, di un giocattolo, di una lampadina, completando l’ultima tappa di un visionario e lungimirante percorso di auto-inquinamento. Il colosso di cemento e acciaio, ultima illusione di una Calabria sempre più povera ed isolata, ha scaturito, sì, ricchezza e lo sviluppo, ma solo delle anime nere di ndrangheta e delle loro pance già satolle.Il grande porto di transhipment, dove la merce arriva e immediatamente riparte, è privo di un vero rapporto produttivo con il territorio circostante e non lascia nulla alla terra che lo ospita. Il mare tutto porta e tutto si riprende, lungo questa gigantesca cattedrale nel deserto dove il lamento sordo delle sirene delle navi, più che un vittorioso squillo di tromba celebrante il riscatto produttivo e industriale, risuona mestamente come campane a morte.
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