mafia
Come Falcone e Borsellino hanno sfidato Cosa Nostra
Paolo Borsellino aveva pochi attimi da dedicare a sé stesso, nella primavera del 1992. Gli impegni di un magistrato sono stressanti, ma da quindici anni almeno, Borsellino non perdeva occasione di ricorrere alle cure di Paolo Biondo, il barbiere di fiducia che ogni mattina apre bottega in via Zandiolo, a Palermo. Il pomeriggio del 23 maggio, ovviamente del ’92, scivola via come un qualsiasi altro pomeriggio prossimo all’estate. Ancora alle 18, il sole scalda nel suo tramontare e il cielo limpido accompagna i passi di Borsellino, che entra in bottega tirando un sospiro di sollievo, felice di poter staccare la spina per pochi minuti. Biondo avvolge la salvietta al collo di Borsellino, comincia il suo fine lavoro di forbici e rasoio, ma ad un certo punto viene interrotto dal suono del telefono cellulare del magistrato.
«Sì?»
«Paolo?»
La conversazione che segue, non promette nulla di buono. Borsellino sbianca in volto, prima di parlare.
«Ma che dici?», domanda, forse stupidamente, sperando di non aver capito bene.
«Sì, è Giovanni. Sappiamo solo che è ferito».
Borsellino si rizza in piedi, strappa alla buona la salvietta dal collo e, senza interrompere la telefonata, lascia venti mila lire sul bancone di Biondo, prima di uscire. Alle 17 e 56, in prossimità di Capaci, il tratto autostradale della A29 è saltato per aria trascinando con sé la vettura di Giovanni Falcone (con moglie e scorta al seguito). Quando Borsellino arriva all’ospedale Civico, ha giusto il tempo di salutare l’amico e collega, prima che questi esali l’ultimo respiro. Una strage che non ha bisogno di inchiesta per conoscerne il mandante. Una sorte che, appena due mesi dopo, toccherà anche a Borsellino.
In pochi mesi lo stato perde Falcone e Borsellino
Sono i mesi, anzi gli anni, delle bombe mafiose. Se da via Zandiolo imboccate via Principe di Palagonia e, successivamente, svoltate in via Notarbartolo, vi troverete dinnanzi ad un albero ricolmo di messaggi d’affetto: biglietti, fiori, magliette. In quel punto, vicino alla sua abitazione, si è scelto di ricordare Giovanni Falcone: un chilometro e poco più, questo è lo spazio della memoria. Lo spazio di questa storia, invece, non conosce confini.
Si chiama zona grigia lo spazio di mezzo che separa, o forse congiunge, la criminalità organizzata dalla società civile. Nando della Chiesa, nel suo Manifesto di lotta alle attività mafiose, sostiene che «[la zona grigia è] più ristretta nei periodi dei grandi traumi e delle più intense mobilitazioni civili, più estesa nei periodi di pax mafiosa» sottolineando quanto sia importante non credere di aver vinto, se non esplodono più le bombe. Perché la zona grigia - una galassia di persone, complici o codarde, ma anche di comportamenti, più o meno, intenzionalmente criminosi – è in espansione. Ovvero, all’interno di quella che viene ritenuta comunemente ‘legalità’, si stanno compiendo via via sempre più illegalità. La zona grigia è la coltre che infanga il politico che sta al gioco del voto di scambio, quanto quella che tocca appena il piccolo funzionario, che, per abitudine, ignoranza o anche paura, appone un timbro che non dovrebbe, falsifica un documento di poca importanza o, infine, beneficia di un favore inusuale.
Più si intensifica la nebbia, più diventa facile, per l’illegalità, mimetizzarsi. Di conseguenza, per chi la combatte, scovarla. Perciò, notizie come quelle che hanno accompagnato la zona del Gargano negli ultimi tempi, in cui il regolamento di conti tra le cosche è tornato d’attualità, non dovrebbero spaventare, anzi. Se c’ ancora un vescovo, come Franco Moscone, pastore di Manfredonia, che parla della sua terra come una sorta di un’exclave di uno stato sudamericano, allora vuol dire che non tutto è perduto.
La nebbia della zona grigia tra società civile e criminalità
Piuttosto, sono altri i dati che dovrebbero spaventare: nel dicembre scorso, il presidente del Tar, Domenico Giordano, ha denunciato la preoccupante riduzione dei tempi medi per la risoluzione di una causa del Tribunale Amministrativo in Piemonte. Bardonecchia docet, ma non serve particolare acume per sapere che il Piemonte, al pari della Lombardia e della Liguria, sia ormai da anni una terra conquistata dalle organizzazioni mafiose. E i TAR sono uno dei tanti uffici pubblici in cui è meglio avere amici, piuttosto che nemici.
Per questo oggi è sempre più complicato combattere la criminalità organizzata: superate le barriere e i confini, con un portafogli sempre più ricco – lospaccio di droga, ad esempio per la ‘ndrangheta, vale quasi il 50% del fatturato “d’azienda” – non vi è più la necessità di sparare un colpo. Il distacco che separa chi scappa, i criminali, da chi insegue, la DIA, la stampa o chicchessìa, è talmente vasto che non si ha il tempo di scoprire qualcosa di nuovo, che già è vecchio, superato, perfezionato. E più la zona grigia aumenta, più il divario si allarga e, sempre più lontano sentirete l’eco dell’esplosione di Capaci. Non sono gli anni a scalfire quel suono, no. Non quanto il silenzio.
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