politically correct
Il politicamente corretto a tutti i costi ci sta sfuggendo di mano
La morte registrata di George Floyd ha avuto l'effetto di un fiammifero acceso su una montagna di esplosivo. Quel video ci ha gettato in faccia tutte le dolorose contraddizioni razziali americane e l'effetto valanga che ha generato è arrivato fino alle nostre piazze, qui, nella vecchia Europa. Il Black Lives Matter ha svelato molte delle nostre ombre, permettendoci di discutere nuovamente del passato coloniale italiano, di Montanelli e Pasolini, di statue e simboli. Una discussione necessaria che, però, inizia a incontrare difficoltà nel passaggio dalla sfera sociopolitica a quella culturale, scivolando verso nuove forme di censura.
Il bugiardino per i film
Ha iniziato HBO Max rimuovendo e poi reinserendo Via col vento sulla propria pattaforma on demand con un disclaimer che, in pratica, sottolineava l'ovvio approccio razzista del film con Clark Gable e Vivien Leigh, girato negli anni '30 e focalizzato sul periodo schiavista del Sud degli USA. Poi è arrivato Variety a indicare altri dieci film che avrebbero necessitato della stessa avvertenza:
- Il silenzio degli innocenti (1991)
- Forrest Gump (1994)
- C'era una volta a... Hollywood (2019)
- La taverna dell'allegria (1942)
- Sentieri selvaggi (1956)
- Quelle due (1961)
- Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo (1971)
- Indiana Jones e il tempio maledetto (1984)
- True Lies (1994)
- Io prima di te (2016)
Uno studioso di cinema potrebbe chiedersi perché manchi, in questo elenco, Nascita di una nazione di David Wark Griffith, forse il film-manifesto del razzismo americano per eccellenza, ma sarebbe comunque una domanda oziosa: finché parliamo di inserire disclaimer all'inizio di un'opera, le difficoltà sono minime. Il problema di questo nuovo approccio è un altro: quando inizi a intervenire sui prodotti culturali (non più, quindi, sui semplici simboli) sai dove parti ma non dove arrivi. In USA ne è nata una forma di autocensura che sta investendo i più disparati campi dell'arte, dall'eliminazione di episodi di Scrubs, The Office, Community e The Golden Girls all'allontanamento volontario di doppiatori bianchi dalle serie animate. Una delle prime è stata Jenny Slate, comica e doppiatrice di Big Mouth.
Le parole di Jenny Slate e Kristen Bell
Jenny Slate dava la voce a Missy nella serie animata Big Mouth. Missy è un personaggio di etnia mista: bianca, ebrea e afroamericana. Jenny Slate è bianca ed ebrea ma non afroamericana, quindi ha deciso di lasciare il lavoro con un lungo post su Instagram: «Missy è anche nera, e i personaggi neri dei cartoni animati dovrebbero essere impersonati da persone nere. Ammetto che il mio pensiero iniziale era sbagliato: un esempio del privilegio bianco e delle ingiuste concessioni fatte all’interno di un sistema di supremazia bianca sulla società. Ho partecipato a un atto di cancellazione dei neri». La produzione ha assicurato che la rimpiazzerà con una doppiatrice afroamericana. Subito dopo è stato il turno di Kristen Bell, allontanata (sembra di comune accordo con la produzione) da Central Park, che ha scritto: «Interpretare Molly in Central Park è prova di una mancanza di consapevolezza della pervasività del mio privilegio. Far doppiare un personaggio di razza mista da un’attrice bianca mina la specificità dell’esperienza meticcia e nera americana».
Il doppiaggio è la nuova frontiera del razzismo?
Comprendere le motivazioni delle due attrici è complicato per chi non viva in una situazione di razzismo sistemico come quella degli USA, quindi sospendiamo il giudizio sull'evidente senso di colpa sociale che emerge dalle loro parole. Anche l'iniziativa della FOX di sostituire i doppiatori di serie come i Simpson, così come le parole di pentimento di Alison Brie per aver doppiato un personaggio di diversa etnia in BoJack Horseman si iscrivono nella stessa linea di azione che potrebbe avere un senso, certo, ma solo come mezzo per aumentare l'impiego di minoranze nel campo dell'entertainment (un po' come le quote rosa in Italia). Eppure il senso di distanza, di segregazione, che lasciano questi tweet, per quanto motivati da buone intenzioni, è devastante. Davvero un attore non può dare voce a qualcuno che sia diverso da lui? Dove sarebbe quindi il valore dell'interpretazione? Siamo così distanti da non poterci immedesimare nelle vite degli altri?
Non sappiamo dove arriveremo
Il problema è che nessuno conosce la formula per superare 300 anni di schiavitù e 100 di segregazione, neppure coloro che, in questo periodo, spiegano come farlo. La trasformazione che stiamo vivendo è una novità della nostra epoca, non ci sono precedenti storici della stessa portata. Possiamo fare ipotesi, provare vie più funzionali di altre (come le quote), ma in realtà stiamo improvvisando. Navighiamo a vista in un mare tempestoso e irto di scogli senza aver deciso la rotta. Forse è giunto il momento di stabilire, insieme, dei punti fermi, dei limiti da non superare. Non parliamo più, infatti, di demolire simboli e statue di qualche personalità scomoda. Quelle, in fondo, sono semplificazioni innalzate per essere abbattute e una società che, regolarmente, non distrugge i suoi simboli e li sostituisce con altri, è una società statica e reazionaria. Ma questa cosa che una comica di talento non possa dare la voce a un personaggio animato perché ha il colore della pelle sbagliato suona male. Suona come razzismo. E siamo scesi in piazza per abbattere il razzismo, non per ripeterlo.
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