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Tutto quello che Tienanmen non ci ha insegnato

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Era la notte tra il 3 e il 4 giugno quando le luci si spensero in Piazza Tienanmen e i manifestanti si raggrupparono attorno al Monumento degli Eroi, dove ardeva un ultimo falò. Passarono quei trenta minuti stretti nell’oscurità, discutendo se restare o lasciare la piazza. Alla fine decisero di andarsene, ma ormai era tardi: le luci si riaccesero e gli studenti videro avanzare centinaia di soldati e carri armati. Il resto passò alla storia come strage di Piazza Tienanmen, uno spettro che si aggira nella memoria collettiva cinese, da sempre negato e insabbiato. Ma Tienanmen fu solo il culmine di una stagione di proteste che toccò il mondo intero e da cui, alla fine, non abbiamo imparato nulla.

Iniziò tutto con un funerale

In Cina la situazione a fine anni ‘80 era esplosiva: il paese cresceva ma la corruzione, la criminalità e il disastro delle campagne avevano raggiunto dimensioni ingestibili e, nelle grandi città, la classe media chiedeva più democrazia. Il paese mantenne un equilibrio instabile fino al 1989, quando il Segretario generale del Partito Comunista Hu Yaobang, che aveva cercato un accordo con i riformisti, morì stroncato da un attacco di cuore.

Le proteste in Piazza Tienanmen
Le proteste in Piazza Tienanmen

Fu durante il suo funerale che, sotto gli occhi di tre protagonisti di quel dramma: l’anziano “leader supremo” Deng Xiaoping, il Primo ministro intransigente Li Peng e il segretario generale Zhao Ziyang, aperto al dialogo coi riformisti, scesero in piazza gli studenti con la richiesta di incontrare il Governo che, però, scelse di ignorarli. Zhao Ziyang, capo del Partito e vicino alle idee di Hu Yaobang, dovette partire per la Corea del Nord poco dopo e fu allora, approfittando della sua assenza, che Li Peng organizzò un incontro con il leader Deng Xiaoping, ancora a capo della Commissione militare, per scartare ogni dialogo coi manifestanti e adottare la repressione armata.

L’arrivo di Gorbaciov

In un clima di tensione crescente si inserì anche l’arrivo in Cina del Segretario del PCUS Gorbaciov che stava portando avanti, in Russia, un progetto di riforme preso a esempio dai contestatori cinesi. Gli studenti si insediarono in piazza Tienanmen il 13 maggio chiedendo un dialogo col Partito e denunciandone la corruzione e il nepotismo

I feriti degli scontri del 1989 a Pechino
I feriti degli scontri del 1989 a Pechino

Approfittando dell’arrivo del capo di stato russo, il 16 maggio, i manifestanti attirarono le attenzioni di tutti i media mondiali e questo segnò il loro destino. Il movimento, va detto, era percorso da profonde contraddizioni, tra istanze di liberalizzazione e spinte nazionalistiche, una frammentazione naturale vista l'enorme partecipazione a Pechino e in altre 300 città cinesi. Ma l’attenzione internazionale finì per irrigidire la posizione di Deng Xiaoping, seguito a questo punto anche dagli Otto Immortali (anziani del Partito, senza un ruolo ma profondamente rispettati). La linea dura, ormai, era inevitabile.

«Studenti, siamo venuti troppo tardi»

Zhao Ziyang cercò di ricomporre la frattura tra dirigenza comunista e manifestanti, ma ne uscì sconfitto. Il 20 maggio scese nella gremita Piazza Tienanmen e disse: «Studenti, siamo venuti troppo tardi», il giorno dopo Deng Xiaoping decretò la Legge Marziale. Il 27 maggio Ziyang fu estromesso dal Partito e poi arrestato (è rimasto ai domiciliari fino alla morte nel 2005). A quel punto l’esercito occupò la capitale, e il destino della protesta e dei molti scioperi della fame tra gli studenti fu segnato. Alle 4 del mattino del 4 giugno, le luci si spensero in Piazza Tienanmen e, quando si riaccesero, l’esercito attaccò i manifestanti. Alle 5.40 la piazza era stata sgomberata.

Il rivoltoso sconosciuto di Piazza Tienanmen
Il rivoltoso sconosciuto di Piazza Tienanmen

Dopo trent’anni ancora non sappiamo il numero di vittime di quella notte. La Cina afferma che non ce ne furono, ma le testimonianze parlano di centinaia di morti tra i manifestanti e le forze armate. Non sapremo mai la verità perché Tienanmen è lo spettro che si aggira nel dibattito pubblico cinese: vietato parlarne, come dimostra il bando dell’argomento persino su Internet.

Tutto quello che Tienanmen non ci ha insegnato

La protesta e la seguente repressione furono un detonatore mondiale già allora, nel 1989, prima di Internet e della comunicazione istantanea globale. Le rivolte negli stati satelliti della Russia erano legati a doppio filo al risveglio (e alla brutale repressione) della vasta e crescente classe media cinese: il muro di Berlino cadde solo cinque mesi dopo e l’URSS si dissolse tra il 19 gennaio del 1990 e il 26 dicembre del 1991. Tienanmen, quindi, ci aveva insegnato, già trent’anni prima del coronavirus, che se “una farfalla batte le ali a Pechino a New York arriva la pioggia invece del Sole”. La Cina è troppo grande e interconnessa perché possa continuare ad agire senza un dialogo con le altre nazioni, in particolare su alcuni aspetti che finiscono per influire direttamente anche sulla nostra vita.

1. Il mercato di animali selvatici

Il mercato d Wuhan in Cina è stato uno dei focolai del coronavirus
Il mercato d Wuhan in Cina è stato uno dei focolai del coronavirus

Il problema del commercio illegale di animali selvatici in Cina è ormai sotto gli occhi di tutti, dopo l’emersione della Sars e del Sars-Cov-2 (ne parlammo qui). Il Governo stesso è intervenuto, vietandolo, allo scoppio dell’epidemia, e ora Wuhan ha prolungato il provvedimento per altri cinque anni. Il dott. Peter Li, specialista in politica cinese della Humane Society International e professore associato a Houston, ha spiegato: «Il divieto di Wuhan rappresenta un chiaro riconoscimento di quanto sia serio il rischio per la salute pubblica, collegato alla diffusione di malattie zoonotiche attraverso il commercio di specie selvatiche. Un rischio che deve essere preso sul serio se vogliamo evitare future pandemie e che non sarà certo minore tra cinque anni. Ma ora serve una volontà su scala globale per fermare il pericoloso traffico di fauna selvatica». Una volontà che potrà far poco se il governo di Pechino non instaurerà un dialogo sull’argomento con il resto del mondo.

2. Le dimostrazioni di Hong Kong

La protesta di Hong Kong del 2019
La protesta di Hong Kong del 2019

Un paese e due sistemi, questa era la filosofia alla base dell’annessione di Hong Kong nel 1997. Le proteste di questi mesi, però, dimostrano che la realtà è molto diversa in un paese, la Cina, che ha fatto dell’esercizio del soft power una delle discipline in cui è maestro. Il rispetto della particolarità di Hong Kong è un problema reale per Pechino perché democrazia e totalitarismo non possono coesistere in armonia sotto lo stesso tetto. Non facciamoci ingannare dalle dimensioni di Hong Kong rispetto al gigante cinese, le libertà civili della ex-colonia britannica mettono in discussione la forma stessa dell’attuale regime comunista continentale. Pechino non si fermerà finché non avrà “normalizzato” questa minaccia, col soft power o con la repressione.

3. Il problema del carbone

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L'inquinamento atmosferico a Pechino

La Cina, da sola, produce energia a carbone pari a tutta l’Unione Europea. Tra il 2006 e il 2015 la politica di “un impianto a settimana” ha creato un vero e proprio colosso dell’inquinamento mondiale e, secondo Ted Nace di Global Energy Monitor: «La cosa che ci preoccupa maggiormente è che questa industria è organizzata per durare nel tempo, ci sono tre grandi gruppi commerciali che vogliono aumentare la produzione di carbone del 40%. È pura follia in questo momento». La Cina ha, comunque, iniziato anche un percorso green tagliando l’uso del carbone dal 68% del 2012 al 59% nel 2018 e finanziando la lotta al cambiamento climatico, ma appare chiaro che, come gli USA, anche il colosso asiatico non stia agendo tempestivamente. «La produzione della Cina è così distante dagli accordi di Parigi che anche se ogni paese volesse eliminare completamente le emissioni non verrebbe raggiunto il livello stabilito a Parigi» per Christine Shearer di Global Energy Monitor.

4. L’uso dei nostri dati dei colossi Huawei e TikTok

I grandi stabilimenti di Huawei a Dongguan in Cina
I grandi stabilimenti di Huawei a Dongguan in Cina

I dati personali sono il petrolio del nuovo millennio e i colossi Huawei, per le comunicazioni, e TikTok, per i social network, hanno ormai da tempo accesso anche a quelli dei cittadini occidentali. Al di là delle preoccupazioni, forse eccessive, degli USA per la propria sicurezza nazionale, il fatto che questi colossi, che sono sottoposti alle leggi cinesi e che quindi hanno margini di privacy diversi dai loro corrispettivi americani ed europei, controllino le infrastrutture comunicative e facciano campagne di acquisizione dati personali, come denunciato dalla CNN tempo fa, desta preoccupazione in molti. Huawei, dal canto suo, ha pubblicato sul Wall Street Journal un’intera pagina invitando i giornalisti ai propri stabilimenti di Shenzhen (la Silicon Valley cinese) per mostrare con trasparenza come lavora. Un primo passo, speriamo non l’ultimo.

Serve un dialogo tra oriente e occidente

Insomma, la Cina è un grande paese dalla cultura millenaria e sarà protagonista di questo secolo. Il gigante asiatico è la nazione più popolosa del mondo, per questo non possiamo più permetterci che i suoi problemi siano l’elefante nella stanza di cui nessuno parla oppure, peggio ancora, siano la miccia per esplosive lotte economiche come quelle di Donald Trump. Mai come oggi, a trent’anni da Tienanmen, in un mondo piegato dalla crisi del coronavirus, è necessario che occidente e oriente trovino un modo per dialogare e dare, così, all’umanità una direzione unitaria.

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