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Per capire l'orrore di Guantanamo dovete guardare The Mauritanian

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The Mauritanian non è un semplice legal drama uscito su Amazon Prime Video e ispirato al libro di memorie più venduto negli USA nel 2015. Il film del regista premio Oscar Kevin Macdonald, con Jodie Foster, passato in anteprima europea al Festival di Berlino, è una testimonianza dell’orrore. Un orrore che il mondo occidentale, patria della democrazia e del diritto, è riuscito a infliggere ai suoi prigionieri e a se stesso nell’epoca buia che seguì l’11 settembre e il Patriot Act di George W. Bush. Un orrore che, ormai ufficialmente dismesso, non è ancora il passato. A Guantanamo, infatti, sono rimasti 40 detenuti senza diritti come il protagonista di The Mauritanian, dimenticati in un angolo buio della nostra coscienza collettiva.

The Mauritanian ha il coraggio di mostrare questo orrore

Il film è basato su Guantánamo Diary, il libro di memorie più venduto nel 2015, scritto proprio dal protagonista durante la prigionia. Mohamedou Ould Slahi è un pacifico cittadino mauritano che viene catturato, senza troppe prove, dagli USA. Il governo americano ritiene Slahi il reclutatore dei dirottatori che hanno abbattuto le torri gemelle del World Trade Center. Finito a Guantanamo, Slahi (interpretato da Tahar Rahim de Il profeta di Audiard) resta in un limbo di atrocità per anni, senza accuse formali né processo, finché un avvocato difensore, Nancy Hollander (Jodie Foster, che ha vinto il Golden Globe per questo ruolo) sfida l’odio dell’opinione pubblica e prende in mano il caso del mauritano. La sfida tra Hollander e il procuratore interpretato da Benedict Cumberbatch finisce per portare a galla le contraddizioni del carcere di Guantanamo e tutto l’orrore che si nasconde al suo interno.

Umiliazioni e violenze sessuali, musica ad altissimo volume, incappucciamenti, soffocamento con acqua (waterboarding) e cani feroci. Queste le torture inflitte ai detenuti, ideate e sviluppate da Mitchell e Jessen, psicologi dell'aeronautica militare, per la CIA. Tecniche sulle quali i due consulenti costruirono una fortuna: la loro società privata ricevette, dai servizi americani, 70 milioni di euro per “interrogare” i prigionieri, negli anni seguenti. The Mauritanian ci mostra queste torture nel momento giusto, senza sconti e senza la retorica che ha cercato per anni, inutilmente, di smascherare la lucida di atrocità dietro i reticolati di Guantanamo.

La storia di Guantanamo

Le due parti della base militare di Guantanamo Bay si osservano reciprocamente da un lato all’altro dello stretto di mare che le separa. Con oltre 9mila marines e ormai solo 40 detenuti, “gitmo” (come i militari sono abituati chiamare la base) è l’unica installazione militare statunitense in un paese comunista. Un’esistenza sotto assedio, quella dei soldati di Guantánamo, a loro volta carcerieri, negli anni, di quasi 800 “prigionieri di guerra”. Con questa denominazione, infatti, il governo americano ha cercato di aggirare il diritto internazionale e sottoporre i sospetti terroristi a detenzioni illegali e alle più disparate torture. Dal 2002 al 2003 i detenuti sono passati da 158 a circa 650. Nel 2006 scesero a 500. Dal 2009 in poi ci fu una costante riduzione, fino ai 40 di oggi. Solo per alcuni di loro è stato formalizzato un capo d'imputazione con conseguente rinvio a giudizio.

Il campo di prigionia di Guantanamo è diventato, così, una macchina perversa, alimentata dall’isteria di massa, che ha divorato nei suoi ingranaggi anche alcuni innocenti. Ruhal Ahmed, Asif Iqbal e Shafiq Rasul, tre cittadini inglesi, furono catturati in Afghanistan nel 2002 e finirono nell’abisso di Guantanamo per tre anni prima di essere scagionati e rilasciati nel 2004. La loro storia è divenuta un film documentario, The Road to Guantanamo, diretto da Michael Winterbottom e Mat Whitecross nel 2006.

Cosa dice di noi Guantanamo

Il 22 gennaio 2009, a due giorni dal suo insediamento alla Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama firmava il decreto 13492, executive order che concludeva l’esperienza di Guantanamo e stabiliva la chiusura del carcere. Una scelta non solo politica: anche Donald Trump, nonostante gli annunci, durante la sua presidenza ne ha progressivamente dismesso le attività. L’impressione è che dietro quell’abisso di illegalità che è stata (ed è ancora, per 40 persone) Guantánamo non ci fosse tanto la battaglia contro il terrorismo quanto quella contro il terrore. Gitmo è stata la risposta dell’iperpotenza mondiale alla dimostrazione evidente della sua stessa vulnerabilità. Una risposta muscolare, di quelle che l’umanità dà quando si sente in pericolo, rifugiandosi, spesso troppo facilmente, all’ombra della forza e della violenza. Una paura che, però, oggi è ormai fredda e sopita, sotto le ceneri delle nuove paure del millennio.

«Le persone ancora detenute a Guantánamo sono inesorabilmente intrappolate a causa di multiple condotte illegali dei governi Usa: trasferimenti segreti, interrogatori in regime di isolamento, alimentazione forzata durante gli scioperi della fame, torture, sparizioni forzate e il totale diniego del diritto a un giusto processo», ha commentato Daphne Eviatar, direttrice del programma Sicurezza e diritti umani di Amnesty International Usa. Serviranno anni per dismettere Guantánamo, ma la sua eredità ci accompagnerà a lungo. La base di “gitmo” ha inaugurato una nuova epoca dove i campi di prigionia sono numerosissimi e ben visibili, nel mondo. In alcuni casi, come per gli Uiguri dello Xinjiang, le autorità parlano di “rieducazione”, in altri, come per i migranti nei campi in Libia, di contrasto all’immigrazione clandestina col supporto economico e il beneplacito dell’Occidente europeo. In tutti questi casi il fine della “sicurezza” giustifica qualsiasi mezzo come, nel 2002, la lotta al terrorismo giustificò Guantánamo. Una scelta, quella di allora, che ha formato il nostro tempo trasportandoci in un’epoca più buia.

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