diritti delle donne
Sono stata vittima di un matrimonio forzato. E sono scappata
Il tempo scorre né lento né veloce per Abida. Adesso che il suo matrimonio combinato e forzato è finito deve osservare un periodo di “lutto” lungo tre mesi. «Devo fare finta che sia una cosa che mi fa stare male», ci dice al telefono. Il suo è stato uno dei tanti matrimoni forzati che legano a doppio filo l’Italia con alcuni Paesi asiatici come il Pakistan e il Bangladesh, a causa di un vuoto culturale e di un sistema normativo che inghiotte, oltre ai diritti delle donne, tante giovani italiane di seconda generazione. Proprio come Saman Abbas, scomparsa il 30 aprile a Novellara. E proprio come Abida, 24 anni, cresciuta in Italia e cittadina del nostro Paese da dieci anni.
La storia di Abida
Abida era ancora alle medie quando i suoi genitori discutevano di matrimonio. «I parenti da parte di mia mamma andavano dai miei a ricordare che il loro figlio maggiore era in età da matrimonio. Mio padre, invece, voleva che sposassi un cugino suo. Insomma, ero un pacco. Mentre io volevo solo studiare per diventare insegnante», spiega. Abida parla come una bambina, ma nel raccontare la sua storia la voce si fa tremolante come quella di una donna matura. Ci dice che nel 2017 è dovuta tornare in Pakistan per farsi fare un apparecchio per i denti perché «lì costava meno che in Italia». Un viaggio di un paio di settimane, il tempo di salutare i parenti e poi di nuovo a casa. In Pakistan invece ci resterà tre lunghi anni, lontana dalle amicizie e dai romanzi storici che amava leggere. «Mi sono ritrovata con l’imam e due testimoni in casa. Ho detto a mio padre che non volevo sposarmi ma lui ha messo l’izzat, l’onore, in mezzo». Così Abida ha ripetuto per tre volte “Qubool hai”, “accetto”. «Mi sono sposata senza che neanche me ne accorgessi». Dopo sei mesi, il tempo di far ottenere il permesso di soggiorno al marito, Abida ritorna in Italia. E comincia un inferno fatto di violenze fisiche e sessuali. «Lui lavorava fuori e prima di tornare a casa mi chiedeva se avessi il ciclo. Non potevo parlare con nessuno, neanche con gli avvocati. Mi picchiava e mi violentava, ma per onore non ho mai denunciato alla polizia. Pensavo che non ne sarei mai uscita. Poi mio padre ha chiesto la separazione per preservare l’izzat. Io non l’avrei mai fatto, avrei infangato l’onore della mia famiglia. In Pakistan già si chiacchiera molto su quanto è successo». E così per Abida è iniziata una nuova vita. «Mi sono iscritta alla scuola di guida, vorrei tanto prendere la patente. E intanto cerco un lavoro. Voglio diventare una donna indipendente, con un lavoro, una casa. Vorrei anche adottare un bambino». Ma la notte è difficile addormentarsi. «Ho paura sia solo un sogno, che lui ritorni da me e mi riporti in Pakistan per sempre». Incubi e sogni che si alternano, in un’altalena di speranze e paure.
Il numero sommerso delle spose forzate
Se si chiede alle associazioni il numero delle donne costrette a sposarsi forzatamente in Italia, i numeri variano. In assenza di un osservatorio resta così impossibile decifrare un fenomeno culturale che colpisce molte ragazze di seconda generazione. E che può sfociare nel delitto d’onore. Come nel caso di Sana Cheema, la ragazza bresciana di origine pachistana uccisa in Pakistan perché voleva sottrarsi a un matrimonio forzato. In mancanza di un quadro legislativo forte e completo, le operatrici dei centri antiviolenza sono costrette a fare da sole. «È un percorso molto difficile, che richiederebbe un lavoro integrato con le istituzioni», spiega Mara Cortiniglia de Le Onde onlus, associazione di Palermo che si occupa di violenza sulle donne. «Per questo lavoriamo in rete anche con altre associazioni, soprattutto nei casi in cui la donna deve essere allontanata. Ma ogni situazione è a sé. Anche se si tratta sempre di un punto di un non ritorno. Per la donna segna sempre una rottura con la comunità di appartenenza, con importanti ricadute psicologiche». Ferite che difficilmente si rimarginano.
Il tallone d’Achille della legislazione italiana
Attualmente, l’articolo 7 della legge “Codice Rosso” del 19 luglio 2019 introduce il reato di “costrizione o induzione al matrimonio” e prevede fino a sette anni di reclusione per chi costringe una persona a sposarsi con “violenza o minaccia” o con “abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative”. La norma si applica anche quando il reato è commesso all’estero, in modo da tutelare anche le nuove generazioni. Una boccata d’aria (forse) per le tutte associazioni impegnate a contrastare questa piaga non solo in Italia, ma anche all’estero, e che da anni denunciano la necessità di colmare la vacatio legis che aleggia sul tema. Ma secondo Aidos, il fenomeno dei matrimoni forzati e precoci va analizzato e studiato meglio. «Non si può intervenire con degli schemi che sono puramente di punizione e di inasprimento delle pene», spiega Maria Grazia Panunzi, presidente Aidos. «È un atteggiamento che non porta a nulla, perché va incidere sul tessuto familiare, si va a togliere la genitorialità e a inserire la bambina o la ragazza in un altro contesto, che vive così altre situazioni di disagio. In alcuni contesti, come nei casi di conflitti, le ragioni date per i matrimoni precoci sono di protezione delle figlie dalla violenza. Ecco perché è necessario uno studio approfondito del fenomeno. C’è bisogno di un approccio multidisciplinare e interculturale, perché spesso non c’è l’intento di far male alle proprie ragazze. Non può essere solo la legge, che è comunque un aiuto, a dettare la strategia per risolvere questo problema. Inasprire il reato può vuol dire non farlo emergere». E troppe giovani continuano a sparire nel nulla. Come denuncia Ejad Ahmad, direttore di Azad, le ragazze vengono tolte da scuola e riportate nel Paese di origine per sposarsi. «Una soluzione parziale potrebbe essere rappresentata dallo ius soli, ma molte giovani non fanno nemmeno in tempo a segnalare l’abuso. Il fenomeno è destinato a crescere con l’aumento del numero di immigrati e dei ricongiungimenti familiari». Insomma, la chiave per combattere il fenomeno resta quella culturale. Perché il pugno duro può rivelarsi fin troppo morbido quando si scontra contro il muro delle tradizioni.
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