VD Logo
VD Search   VD Menu

film

Relic. Sempre più anziani vivono l'horror della solitudine

Condividi su Facebook Condividi su Twitter Condividi su WhatsApp

Cosa resta di una persona amata quando diventa ostaggio della vecchiaia? E cosa resta di noi quando la nostra vita viene schiacciata dall’assistenza ai genitori e ai parenti più anziani e bisognosi? Un interrogativo che è esploso in questi giorni di pandemia, tra RSA e anziani in pericolo. Ed è anche la domanda attorno a cui ruota Relic, horror d’esordio dell’australiana Natalie Erika James.

Relic, ciò che resta dell’horror

Relic sta per reliquia, intesa sia come oggetto sacro che avanzo, residuo destinato, prima o poi, al disfacimento completo. Due significati che si incarnano in Edna, donna anziana che vive da sola e che un giorno scompare misteriosamente. Quando torna, pochi giorni dopo, la figlia Kay e la nipote Sam stentano a riconoscerla: un male oscuro si è insinuato nella matriarca. La casa, naturale estensione di Edna, è anch’essa un sarcofago destinato a ribellarsi sotto gli occhi delle due donne più giovani, incapaci di comprendere il dramma della vecchiaia. Dalla cortina inquietante dell’horror, Relic porta in superficie tutte le contraddizioni che travolgono il rapporto genitore e figlio dopo una certa età, quando i ruoli si invertono con prepotenza e irreversibilmente. Affiorano, nel film, la solitudine degli anziani, l’egoista indifferenza dei figli ormai cresciuti, il senso di perdita di una mente in cui i ricordi si assottigliano e svaniscono. Ma anche il legame ancestrale del rapporto madre-figlia, nocciolo duro che, alla fine, accoglie l’inevitabile per sublimare il dolore con l’amore. La storia entra progressivamente sotto pelle, nella nostra mente, senza balzi e jumpscare, come una sensazione di inquietudine diffusa. Relic è un film che trascende l’horror e aliena proprio come la malattia della protagonista, facendo riflettere sui problemi di un’intera generazione, quella dei caregiver.

La generazione sandwich dei caregiver

L’hanno chiamata generazione “sandwich” o “caregiver” e in Italia sono milioni. Si tratta dei figli che ora si prendono cura di un numero sempre più ampio di genitori o parenti anziani, assistendoli nelle loro case o vivendo direttamente con loro. Sono 1 milione le persone che si dividono tra famiglia, lavoro e assistenza ai genitori, numero che lievita a quasi 10 milioni se calcoliamo anche coloro che aiutano parenti anziani anche solo qualche ora ogni giorno. Un caregiving che occupa tempo, investe soprattutto le donne e rivela le distanze economiche del nostro paese: una badante costa almeno 15mila € l’anno, a fronte di 508 € al mese di pensione di accompagnamento. Tutto questo in un vuoto normativo pressoché totale: tre disegni di legge sono stati presentati al Senato, l’ultimo ancora in corso d’esame questo luglio, per riconoscere la figura del “caregiver”, della persona che “si prende cura” del genitore anziano. Riconoscimento che, ad esempio, in America esiste da anni con tanto di National Family caregiverss association e che, in Italia, potrebbe portare a sgravi fiscali nell’assunzione di badanti e ad aiuti economici e assistenziali di vario tipo. Nel nostro paese un anziano non autosufficiente su due è assistito dai familiari e non da professionisti e, dall’altro lato, un terzo degli italiani si occupa sia dei figli che di un genitore anziano (secondo l’indagine Doxa per l’ISS). Alle difficoltà pratiche ed economiche se ne aggiunge anche una psicologica, che emerge in tutta la sua potenza proprio in Relic: la “sindrome del lutto” che colpisce soprattutto chi assiste persone affette da malattie invalidanti come la demenza. Elisabetta Luisa Ferrari, coordinatrice dello sportello Aiuti familiari a Milano, ha spiegato: «Emotivamente si fa fatica a “elaborare il lutto” di aver perso, anche se non fisicamente, una mamma o un papà malato. E la riorganizzazione del tempo tra casa, lavoro, bambini da seguire a scuola e genitori da assistere diventa complessa e stressante. I caregiver oscillano spesso tra il fuggire da queste situazioni e il non riuscire più a staccarsi». Sindrome che può portare all’ipercura e alla successiva depressione. Una situazione instabile che il coronavirus ha definitivamente messo in crisi.

La pandemia e l’emigrazione

Lo tsunami del coronavirus ha travolto anche i legami di assistenza familiare nel nostro paese, uno dei più anziani del mondo. Dalle stragi nelle RSA alle difficoltà e ai rischi di assistere i propri genitori durante il lockdown, molte dinamiche hanno dimostrato di dover essere ripensate. Proprio per questo la comunità di Sant’Egidio ha riunito una tavola rotonda proprio a Milano lo scorso 21 ottobre per discutere un nuovo piano d’azione. Maria Luisa Cito, responsabile del Servizio Anziani di Sant’Egidio, ha dichiarato, proprio in quella occasione: «La pandemia fa emergere ciò che sa da tempo chi opera accanto agli anziani: c’è bisogno di ripensare i servizi, le reti di aiuto, l’assistenza sociale e sanitaria degli anziani». Per Cito serve «una riflessione comune sul futuro degli anziani, dalla trasformazione delle Rsa ai servizi per la domiciliarità, dal cohousing ai servizi di sostegno alle famiglie che vogliono prendersi cura dei loro vecchi ma spesso non sanno come fare. È il momento per ripensare a tutti i livelli un futuro migliore per gli anziani in un’ottica di solidarietà tra le generazioni». Una solidarietà messa in crisi anche dalla fortissima emigrazione del nostro paese, non solo Sud-Nord ma anche all’estero. Già nel 2017 il docente di demografia alla Cattolica di Milano, Alessandro Rosina, commentava: «Nel nostro Paese gli over 80 sono 4 milioni, i “grandi vecchi” rappresentano la componente della società che aumenta con maggiore velocità e, prima della metà del secolo in corso, raggiungeranno gli 8 milioni». Tendenza, questa che avevamo già rilevato attraverso lo studio di The Lancet a luglio. «Nei prossimi decenni diminuirà la popolazione di età centrale, il carico degli anziani sarà più pesante e verrà meno il numero di persone dedite all’accudimento. La popolazione invecchia, i bambini non nascono e la maggior parte dei caregiver sono donne che oggi hanno tra i 40 e i 55 anni: chi se ne occuperà, visto che i loro figli oggi studiano e spesso scelgono di trasferirsi lontano da casa per lavoro?». Le difficoltà create dal coronavirus sono un’anticipazione dei problemi che affronteremo in futuro.

Le difficoltà di un caregiver familiare in Italia

Segui VD su Instagram.

ARTICOLI E VIDEO