musica
Sahel Sounds: l'alternativa africana allo sfruttamento dei musicisti
Il Sahel è quella immensa fascia che attraversa coast to coast l’Africa subsahariana. Basta aprire Google Earth per riconoscerla subito, tra il vuoto secco del deserto e l’inizio delle zone fertili dell’Equatore. Parte dalle coste atlantiche di Mauritania e Senegal e, mantenendosi sempre al confine tra zone secche e verdi, attraversa Mali, Niger, Ciad, Sudan per poi sfociare sulle coste etiopi ed eritree del Mar Rosso. Proprio questo gigantesco serpente sabbioso di più di 6mila chilometri è musicalmente parlando una delle zone più rigogliose del pianeta. I motivi sono tanti, ma il principale va ricercato soprattutto nella natura nomade e transumante dei popoli che ci vivono da sempre. Più ci si sposta, infatti, più popoli si incrociano e più ci si arricchisce culturalmente (e qualcuno lo vada a spiegare ai partiti di destra).
La musica del Sahel
Ora, in qualche raro caso, al di fuori dell’Africa qualcosa si conosce già di questa musica – è il caso di Bombino, un artista che già da anni si ascolta e si vede dal vivo in Europa, e il suo psych rock intriso di folklore Tuareg –, ma ecco, la stragrande maggioranza dei musicisti del Sahel non si conosce al di fuori dai suoi confini. E questo è un gran peccato. Partendo da queste premesse, nel 2009 Christopher Kirkley si fa venire la pazza idea di fondare Sahel Sounds, a oggi uno dei modelli più virtuosi e interessanti di etichetta musicale. Sede a Portland, Oregon (USA), cuore nel Sahel più sconfinato. Tutto nasce da un viaggio improvvisato. Nel 2008, Chris compra un biglietto di sola andata per il Sahel e finisce per passarci i successivi due anni. «Ho vissuto tra le città e i villaggi della regione, passando tutto il tempo con i musicisti e registrando tutto ciò che mi capitava,» racconta.
La prima folgorazione ce l’ha in Mali ascoltando la musica per chitarra che la gente suona in strada. «Mi ha stregato. Quelle poliritmie pentatoniche avevano un non so che di nuovo ed eccitante, ma al contempo familiare». Le analogie col blues in effetti sono spaventose – e abbastanza note, come dimostra per esempio il documentario sul blues del 2003 diretto da Scorsese che si chiama “Dal Mali al Mississippi”. In ogni caso, anche Chris lo conferma. «Il Sahel è una zona davvero musicale, e la musica lì esiste per essere suonata. Per cui è facile capitare in mezzo a una performance di strada. Nei miei primi tempi era questo: mi facevo trasportare dall’orecchio, ascoltando attentamente se qualcosa succedeva nei villaggi di notte».
Il risultato di quel primo, lungo viaggio finisce dritto dentro una cosa che oggi fa un po’ sorridere, ma che all’epoca era ancora in voga: un blog. Ed è proprio grazie a quel blog e ai vari upload delle registrazioni che, al suo rientro, Chris viene contattato da un’etichetta di Portland, la Mississippi Records. Iniziano così le prime release ufficiali, mentre lui continua a fare avanti e indietro dall’Africa Occidentale a caccia di musica. Arrivano anche le prime richieste di date in Europa: a quel punto, Sahel Sounds inizia a organizzare anche i tour. «Ormai ci vedo più come un progetto culturale. Pubblichiamo dischi, ma promuoviamo anche progetti, facciamo film, gestiamo artisti e tour». Dalle tastiere psichedeliche di Ahmedou Ahmed Lowla agli Etran de L’Aïr (praticamente dei Beach Boys con le dune del Sahara al posto delle onde del Pacifico), oggi la label può contare su un roster di 11 diversi act tra artisti singoli e band.
Non è stata appropriazione culturale
Tanti grideranno all’appropriazione culturale, ma per combattere questo pregiudizio basta un modello, come dicevamo, virtuoso. Tanto per cominciare, la ripartizione dei ricavi tra artisti ed etichetta è del 50-50, ma a volte può anche trasformarsi in un 100-0 per l’artista. È successo l’anno scorso, per esempio. «Nel 2020, abbiamo lanciato un progetto che si chiama Music from Saharan WhatsApp, in cui abbiamo invitato artisti a registrare col proprio cellulare un EP e poi mandarcelo con dei vocali sulla chat,» racconta Chris a VD. «Abbiamo ospitato gli EP per un solo mese e durante quel lasso di tempo il 100% dei proventi è andato agli artisti. È stato un grande successo e ha generato molti ricavi, in un anno dove i tour stavano a zero. Penso che sia stato anche un buon esercizio per bypassare un casino di burocrazia che normalmente coinvolge le release discografiche».
Non bastasse, se normalmente è l’etichetta ad avere la proprietà delle registrazioni definitive, i cosiddetti master, nel caso di Sahel Sounds è un noleggio a tempo determinato. Scaduto quel periodo di tempo stabilito dal contratto (di norma qualche anno), torna tutto all’artista. Un tabù nella discografia occidentale, e da sempre è motivo di guerre tra i grandi artisti major e le case discografiche. Tanto per dirne uno, il caso di Taylor Swift che chiede indietro a Big Machine Records la proprietà dei suoi album giovanili e l’etichetta per tutta risposta li vende a Ithaca Holdings. «Penso che le etichette occidentali debbano essere attente e consapevoli quando hanno a che fare con artisti del Sud del mondo,» spiega Chris con grande diplomazia. «Perché c’è semplicemente un’enorme differenza economica. Oggi molte grandi etichette “indipendenti” stanno pubblicando musica da posti con cui non hanno contatti. Questa cosa può essere buona o cattiva, ma è facile per gli artisti ritrovarsi in contratti discografici non proprio onesti e vantaggiosi.»
Nel Sahel col microfono in mano
Questo è anche uno dei motivi che all’inizio creavano giustamente diffidenza al momento dell’approccio all’artista. C’è sempre un po’ di trepidazione quando ti presenti dal nulla con un microfono in mano. Nel 2008, l’artista doveva letteralmente fidarsi di Chris quando gli proponeva un contratto. Oggi può semplicemente fare una rapida ricerca su Google e constatare che la label ha lanciato le carriere di decine di artisti. «C’è da dire che non ce n’è manco più bisogno,» sorride compiaciuto. «Ti dico con un po’ di orgoglio che Sahel Sounds ormai è molto conosciuta nel Sahel, forse più che nell’Occidente.»
Quanto al futuro, l’idea è di continuare a scoprire nuovi artisti e nuovi sound ancora inesplorati in quella regione – per quanto sarà difficile superare il livello de Les Filles de Illighadad, un trio di ragazze nigeriane che fonde melodie vocali a mantra di chitarra acustica ammalianti. «Sono sempre alla ricerca di nuovi nomi. Non è necessariamente il modello di business più furbo: molte label preferiscono lavorare con artisti già affermati, perché è “rischioso” proporre cose nuove. Ma questa musica è troppo bella e vogliamo essere una porta aperta su tutto ciò che succede oggi nel Sahel.»
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