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musica

Perché non facciamo i live come in Spagna, Olanda e Inghilterra

C’è una cosa che ci ha sostenuto durante questa pandemia: il desiderio di tornare alla nostra vita, che sentivamo osservando una foto di un vecchio concerto, di una piazza affollata, di una prima a teatro. Una mancanza che è diventata sempre più dolorosa e che i grandi player del web vorrebbero trasformare in una nuova normalità, contraddicendo la nostra natura più profonda, che si nutre di prossimità e di contatto fisico. Gli artisti forse non ci hanno salvato dal coronavirus come hanno fatto medici e infermieri, però ci hanno dato una ragione per resistere. Ma questa nuova normalità li potrebbe travolgere. E mentre in Olanda, UK e Spagna si fanno esperimenti con tamponi di massa, tracciamento elettronico e live alla vecchia maniera, in Italia siamo ancora fermi davanti a uno schermo, mentre un intero settore muore.

I concerti in Olanda e Spagna

Il caso più famoso è stato Back to Live in Olanda, ma tutto era iniziato a Barcellona con il test musico-scientifico all’Apollo con 463 persone: test rapido e mascherine, senza distanziamento sociale. Nessun contagio, un vero e proprio successo. E cosa succede, in genere, quando una sperimentazione di successo può alleviare le sofferenze di un intero settore? La si replica. Questa l’idea alla base del Back to Live olandese, iniziativa nata dalla collaborazione tra il Governo e il festival Lowlands di Biddinghuizen che ha visto tornare sotto palco 5.000 persone. Come? Tamponi antigenici 48 ore prima del concerto, un localizzatore da indossare, una app di contact tracing e l’uso obbligatorio di mascherine. Poi un secondo tampone il 25 e 26 marzo. Le stesse regole usate, il 27, per la partita Olanda-Lettonia. Andrea Voss, che con Fieldlab Events ha materialmente organizzato l’evento, è sicuro che l'esperimento sia la via per riprendersi dopo un anno di lockdown durissimo: «Queste misure ci permettono di fare più cose anche prima dell’immunità di gregge». Immunità che sembra ancora lontana in Europa. Al Palau St Jordi di Barcellona, invece, è stato il concerto dei Love of Lesbian, rockband catalana, a riproporre l’esperimento con 5.000 spettatori, tamponi e, stavolta, anche bar e bagni utilizzabili, a turno, in gruppo. Tutto questo in nazioni che sono ancora ben lontane dal covid-free e dove i lockdown sono ormai la realtà di tutti i giorni. La collaborazione tra Governo e settore dell’intrattenimento è stata la chiave di volta per ridare ossigeno non solo a operatori ma anche al pubblico, da troppo tempo privato della propria socialità. E l'uomo, diceva quel tipo, è "animale sociale". In Italia potremmo replicare l’esperimento. Ma per farlo la politica dovrebbe smettere di considerare la cultura un problema secondario e la movida come un nemico da combattere.

Fareste da cavia per sperimentare nuovi concerti?

Nel frattempo ci sono i concerti in streaming

Ne abbiamo visti di ogni tipo: da Travis Scott in versione Fortnite che suona davanti a 12 milioni di avatar nel MOBA più famoso del mondo, ai BTS, star del K-Pop, che hanno appena venduto 900.000 biglietti in 192 paesi per il loro live in streaming, fino a Nick Cave, il quale, dopo un lungo post sul ripensare il ruolo dell’artista oggi, ha trasmesso la sua performance (registrata) all’Alexandra Palace di Londra, nelle case degli inglesi. Come loro molti altri artisti si sono rivolti allo streaming ma l’impatto che questo mutamento avrà sulla musica desta molti timori. Goldman Sachs ha determinato almeno tre conseguenze della pandemia:

  • Accelererà il passaggio dalla musica offline all’online, creando un profitto dallo streaming a pagamento
  • Aumenterà la fiducia nei social media come mezzo per scoprire la musica e promuoverla
  • Incrementerà gli sforzi diretti al consumatore per vendere merchandising e live streaming

Detta così sembra semplice, ma ognuno di questi punti nasconde un costo. Prima di tutto il costo artistico: se i BTS, Scott o Cave non hanno avuto problemi a far pagare i propri fan per un concerto in salotto, lo stesso varrà anche per i giovani artisti emergenti, quelli che vivono di live nei locali o di piccoli concerti? Tutta la scena che si muove subito sotto le grandi star e che, da sempre, costituisce il carburante di ogni novità dello showbiz, come farà a sopravvivere? Il futuro vedrà l’underground ghettizzato nei feed di TikTok mentre si assottiglia il confine tra artista e utente? Andrea Rapaccini del Music Innovation Hub pensa che saranno i festival (in Italia, però, non sono così floridi come all'estero) a colmare questo gap: «Pensiamo per esempio ai tanti festival musicali italiani, che sono un vero e proprio patrimonio, anche per la promozione turistica. Con il live streaming tutta questa produzione italiana di qualità potrebbe essere diffusa nel mondo». Ma Luca Franceschini commenta su Loudd: «Si perderebbe l’esperienza insostituibile di essere presenti lì dove accade l’evento. Tutte cose che chi ha partecipato anche solo una volta ad un concerto conosce bene. Ma siamo poi così sicuri che alla maggior parte della gente interessi fare questo tipo di esperienza?». Forse no. Quanti, davvero, pagherebbero per vedere un festival pieno di musicisti emergenti sul telefono? Infine il costo umano, che sarà inevitabile e devastante. Perché attorno alla musica dal vivo esiste un ecosistema di tecnici e professionisti della logistica, dal semplice roadie al tour manager, che vedranno crollare introiti e occasioni di lavoro e che sono, infatti, scesi in piazza a Milano. Sembra invece molto probabile che a vincere la scommessa del digitale saranno i grandi player del web, come Spotify, che potranno espandersi nel settore live come hanno fatto in quello dello streaming audio, col rischio di imprigionare le nostre scoperte musicali nei loro angusti algoritmi.

E il teatro in uno schermo

Anche per il teatro la domanda da porsi è in che forma sopravviverà al Covid. Durante la quarantena, in Italia come all’estero, è stato un proliferare di alternative al teatro fisico con rappresentazioni su Zoom, Instagram e YouTube. Ma se teatro è letteralmente il “posto dove guardi”, forse quello che abbiamo sperimentato sulle piattaforme o in streaming non è teatro. Si potrebbe obiettare che le rappresentazioni vanno da anni in televisione e che nessuno se ne è mai lamentato, ma non si può vivere un’esperienza teatrale dal sofà di casa. E nemmeno dallo schermo di un telefono che media emozioni e svilisce il potere catartico delle rappresentazioni. Non un ammodernamento, quindi, ma la creazione di qualcos’altro. Di buono o di cattivo starà al personale sentimento di ognuno. Certo è che con una performance su Zoom, Instagram o YouTube, si perde il contatto tra artista e pubblico, con l’attore che, invece di rivolgersi alla platea, guarda al puntino rosso della telecamera. Non solo. In un articolo del The Guardian del 21 settembre, la giornalista Arifa Akbar chiede a Emma Keith dell’NT se questo modello sia economicamente sostenibile. E a quanto pare non può esistere teatro digitale senza teatro fisico. Per filmare ogni performance, l’inglese National Theatre ha speso, infatti, tra le 300.000 e le 500.000 sterline. Dove trovare queste risorse in un momento in cui il teatro non si regge in piedi? - si domanda la Keith. E come stabilire il giusto compenso per gli attori? C’è chi, come modello di business, ha puntato sulle donazioni, con il pregio di rompere la bolla elitaria in cui il teatro è chiuso da tempo. Ma in questo modo, il rischio che a emergere siano sempre le stesse facce note è alto: è difficile che questo sistema tenga in piedi i giovani attori e le neonate compagnie. Quindi, come ha dichiarato l’attore Massimo Popolizio in un’intervista al Corriere, «Grande rispetto per chi lo ritiene un’alternativa possibile, ma il teatro è un’altra cosa! È una cosa viva che si manifesta tra persone vive e non lo puoi fare da casa. Noi attori dobbiamo esser là dove il teatro avviene, non si può tramutare in smart working».

Teatri vuoti - Arturo Muselli nel Teatro Nuovo di Napoli

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