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«Ci rifiutiamo di essere nemici». La Palestina possibile di Laura e Daoud

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È una Palestina lacerata dalle divisioni sociali quella che Laura Munaro ha scoperto. Una terra conosciuta quasi per caso, durante un viaggio nel 2010. Poi l’incontro con Daoud e la famiglia Nassar, che possiede una fattoria su una collina a sud di Betlemme, e l’appuntamento con la storia, proprio là, dove si scrive. Perché «quello che accade fra Israele e Palestina - dice - è come uno specchio», che amplifica i conflitti piccoli e grandi. Da qui la decisione di diventare referente italiana di Tent of Nations, il progetto che mira a fornire aiuti alla fattoria della famiglia Nassar. Che ogni giorno si scontra con il peso dell’occupazione israeliana. A cui risponde rifiutando di scambiare violenza per violenza.

L’incontro di Laura con la Palestina

È il 2010 e Laura ha appena trent’anni. «La mia storia con la Palestina nasce quasi per caso. Nel 2008 avevo iniziato a frequentare un corso di testi biblici della durata di un biennio. Al termine di questi studi c’era la proposta di un pellegrinaggio itinerante della durata di quindici giorni in Terra Santa». E una delle tappe è proprio una fattoria a sud di Betlemme, quella gestita dai Nassar, una famiglia palestinese cristiana, di rito luterana. «Mi sono ritrovata a passare del tempo in questo luogo precario, senza luce né acqua. Questo è stato il mio primo approccio alla fattoria». Poi l’incontro con Daoud Nassar, il proprietario della fattoria. «Il suo motto è: “ci rifiutiamo di essere nemici”, nonostante gli alberi appena piantati sradicati e le cisterne per la raccolta dell’acqua piovana danneggiate dai vicini israeliani, i massi che bloccano la strada diretta alla sua casa, costringendolo ad allungare di chilometri, nonostante gli insediamenti degli israeliani intorno alla fattoria».

«Anni fa aveva un gregge e glielo hanno avvelenato. Eppure i suoi toni non erano duri. In me era scattata una umana curiosità su come quest’uomo potesse sopravvivere in un luogo pressoché desertico con la sua famiglia. E così sono tornata più volte». Fino al 2013, quando Laura decise di fermarsi. «Mi sono chiesta come potesse condurre un’esistenza da cristiano in una terra che violentava continuamente la sua fattoria. E ho cominciato a fare la volontaria in Tent of Nations. Questo significava andare a zappare la terra, seguire l’orologio della natura: gli strumenti sono vanghe, piccozze e rastrelli». Laura scopre, inoltre, che ci sono gruppi esteri a supporto della fattoria e della sua attività. Daoud le chiede di aiutarlo. «È in questo modo che è nato Tent of Nations Italia: ho avviato una newsletter e ho cominciato a parlare della fattoria». Nei testi che Laura spedisce non si parla d’odio.

«Nel corso degli anni ho portato una ventina di persone in Palestina. In un luogo precario dove tutto sembra irrealizzabile, con una causa in corso da trent’anni per far valere i diritti di proprietà della fattoria, non si trattava dell’ennesima polemica sul tema, ma di dare una voce, una prospettiva diversa, un messaggio di possibilità». Nella fattoria di Daoud non si coltiva solo la terra. «Si impara dalla vita sotto l’occupazione: è un’esistenza fatta di muri, di separazioni, di checkpoint. Quella di Daoud è una fede intrinseca, crede veramente nell’amare il prossimo. Ogni volta che vado in Palestina mi rendo conto di quanto sia densa e peculiare l’umanità che si trova in questa terra. Ho ritrovato i caratteri tipici umani. Ma bisogna avere una predisposizione all’accoglienza e all’apertura d’animo per rendersene conto. Questo è quello che mi porto a casa. Ho sviluppato un occhio umano: la Palestina mi ha regalato una vista privilegiata sull’umanità, è una terra che è diventata complementare alla mia dimensione di essere umano».

La storia di Daoud

Dalla fattoria di Daoud si sentono nitidamente i bombardamenti di questi giorni su Gaza, distante circa 70 km. La risposta di Hamas agli sfratti di Gerusalemme est e gli scontri sulla Spianata delle moschee hanno innescato la reazione di Israele, che ha lanciato un’offensiva sulla «prigione a cielo aperto di Gaza». Ma la storia della collina inizia molto tempo prima dei bombardamenti e delle irruzioni nelle case dei civili palestinesi e perfino dello stesso Stato di Israele, nato nel 1948. «Nel 1916 il nonno di Daoud ha acquistato 100 acri su questa collina, a sud di Betlemme, a 600 metri di altezza», spiega Laura. Quando Daoud ha preso le redini della fattoria, dopo le Intifade, gli hanno tolto luce e acqua. Daoud aveva davanti a sé tre opzioni: andarsene dalla sua terra e ricostruirsi una vita altrove, poteva reagire con violenza, o rassegnarsi e andare a vivere in un campo profughi, lavorando di stenti. «Si è inventato una quarta via: “mi rovinano le coltivazioni, vado a chiedere aiuto”. E così è nata Tent of Nations: con una presenza sistematica di volontari provenienti da ogni parte del mondo riceve meno incursioni da parte dei militari».

Tante volte i soldati sono arrivati alla fattoria. «Una volta i militari hanno rotto le recinzioni e hanno puntato i fucili addosso a Daoud e al fratello Daher. I soldati hanno urlato loro che lì non ci dovevano stare. E Daoud per tutta risposta ha offerto loro un caffè. “Abbiamo solo una fattoria, non ci sono armi, troverai solo zappe e piatti da lavare”. E i militari alla fine se ne sono andati. Sono episodi che rappresentano come con i dovuti modi ci sia ancora la possibilità di entrare in contatto, di dialogare. Daoud ha capito che è buono e che parlando da buono è possibile ottenere qualcosa». Con l’aiuto di una collaborazione internazionale Daoud oggi riesce perfino a fare il vino e le marmellate. Ma vivere nell’area C, sotto il controllo israeliano, significa subire giornalmente la strategia dell’isolamento.

«C’è la volontà di rendere la vita quotidiana sempre difficile ed esasperata non solo tramite il muro di separazione ma anche i checkpoint mobili e i campi profughi», spiega Laura. Guai, però, a parlare di una questione religiosa. «È una questione sociale, legata allo status di cittadino: il governo israeliano vuole sempre meno passaporti palestinesi. I recenti sfratti di Gerusalemme Est, che hanno innescato il conflitto, sono solo una modalità. Sono azioni che mirano al solito obiettivo: quello dell’unico Stato». Ma un modo giusto di fare resistenza c’è. «Bisogna continuare a lavorare, a portare a scuola i figli e a cercare una quotidianità. Non si deve abbandonare assolutamente la propria terra: la goccia erode la roccia».

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