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Le operaie dello shopping online che lottano per essere madri

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Ne I miserabili di Victor Hugo, la protagonista Fantine è costretta ad abbandonare il lavoro in fabbrica perché madre. A più di cent’anni di distanza dalla sua pubblicazione, la storia di Fantine, la giovane e bella operaia che dalla campagna va a Parigi in cerca di fortuna, si sovrappone alle storie di altre decine di donne. Perché a rinunciare al proprio lavoro in quanto madri migranti sono oggi le lavoratrici della Yoox di Bologna, colosso dello shopping online.

Le madri della Yoox

«Vuole farmi le domande lei o posso esplodere con la mia rabbia?», mi dice Lula mentre è alla guida della sua Panda. Lula è una mamma migrante, come molte operaie alla Yoox, dove lavora con la cooperativa Lisgroup nel controllo qualità insieme ad altre 150 ragazze. A casa ha un figlio di due anni e mezzo ad aspettarla. «Sono divorziata, non ho nessuno che mi possa dare una mano con il bambino». Insieme ad altre trenta ragazze protesta dal 25 novembre contro le turnazioni estenuanti imposte con la scusa della pandemia e la riduzione della pausa da un’ora a mezz’ora. «Quando abbiamo chiesto come potevamo fare noi madri con i figli ci è stato risposto di licenziarci oppure trovatevi una baby sitter. Ma chi è che viene alle 4.30 del mattino? Non è giusto che ci buttino via così. Non siamo lavoratrici usa e getta». I turni alla Yoox vanno dalle 5.30 alle 13.30 e dalle 14.30 alle 22.30. Orari impossibili per chi ha famiglia. «Adesso che ho cominciato a lavorare con questa modalità sono molto più depressa. Mio figlio ha cambiato atteggiamento, si è fatto più aggressivo, si è sentito abbandonato: non capisce perché lo svegli presto al mattino o lo porti a dormire così tardi la sera». E intanto le madri, una alla volta, si licenziano. «Non possiamo essere mamme lavoratrici. Siamo di fronte a un ultimatum: o essere madri e stare a casa o essere operaie. Nel 2020 se sforniamo figli dobbiamo stare a casa. Ma a me quei 1.200 € servono, sono sola qua. Non ho dei nonni, non ho una famiglia: non ho nessuno che possa aiutarmi. Mi sto aggrappando con i denti a questo lavoro». Anche Jamila, 32 anni, si sta attaccando con tutte le forze a un posto di lavoro che la discrimina in quanto donna migrante. «Una responsabile mi ha detto che se non mi piace il mio lavoro posso fare le valigie e tornare al mio Paese». A Jamila è stato anche intimato di cambiare la fede araba con quella italiana. “Mi hanno detto: “sei in Italia e devi metterti quella italiana”». Jamila ha anche due bambini, di 8 e 6 anni, che vanno a scuola. «Non riesco a fare i turni. Non c’è una scuola che apre alle 4 di mattina. E nel frattempo mia figlia sta peggiorando a scuola, perché non fa più i compiti con me. I bambini erano abituati che stavo sempre con loro. E ho già speso tutti i miei congedi». Jamila soffre a lasciare i figli a una sua amica, che le dà una mano nella gestione dei bambini. «Penso tutto il giorno ai miei figli. Mi dico che sono una cattiva madre, ma non posso fare a meno di questo lavoro. Ho tante rate da pagare, tra macchina e camere dei bambini, devo lavorare, non ho scelta».

Il lato oscuro dello shopping online

Yoox inizia nel 2000 come startup. Dopo la fusione con Net-A-Porter, diventa un colosso dell'e-commerce capace di generare un volume d'affari da 2 miliardi l'anno. Eppure le lavoratrici rappresentano l’ultima ruota del carro in termini di diritti ma anche di profitti non distribuiti. Se si prova a chiamare l’azienda per chiedere spiegazioni, parte una segreteria. Ma il cammino della moda a domicilio è costellato di ingiustizie. Basti pensare a Zalando, che ai suoi dipendenti veronesi offre contratti atipici, o alle proteste dei lavoratori del magazzino fiorentino di Zara dello scorso anno, contro appalti al ribasso e il sistema vizioso delle cooperative, che costringe a orari estenuanti. Un mondo in sofferenza che si nasconde dietro ai bei capi di abbigliamento che arrivano ben impacchettati nelle nostre case. «Le lavoratrici di Yoox hanno fatto richiesta anche per avere buoni pasto, ma dall’azienda si sono sentite rispondere che c’è crisi. Una scusa o poco credibile, dato che l’e-commerce è uno dei settori che più sta funzionando in tempi di pandemia. Stanno approfittando della crisi per non rinnovare i contratti e cercare un ultraprofitto», spiega Eleonora Bortolato di Si Cobas Bologna. «Queste piattaforme stanno guadagnando molto, è assurdo che ai guadagni non corrispondano una ridistribuzione della ricchezza. Per questo le lavoratrici protestano». Lotte che ricordano molto da vicino quelle dei rider, incastrati nei meccanismi della gig economy, che lo scorso 12 novembre sono scesi in piazza a Bologna insieme alle operaie. Una proletizzazione che si sta allargando a fette sempre più grandi di lavoratori. Perché chi sfrutta non va mai in vacanza. «Da questo punto di vista, la classe degli sfruttati non è mai venuta meno. E adesso la forbice si è addirittura allargata».

Ciao Lidia Menapace

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