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Lettere dal penitenziario: un padre in carcere scrive a sua figlia

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Uomini o criminali, padri o detenuti. In bilico tra queste condizioni, esistenze appese a colloqui settimanali e a permessi premio. È la paternità vissuta - e rinchiusa - in carcere, con i figli condannati a conoscere a malapena il proprio genitore. La legge, se da un lato tende, infatti, a privilegiare il rapporto fra la madre detenuta e il figlio, dall’altro tende a ignorare la genitorialità maschile. Ne risulta una paternità “attenuata”, sullo sfondo di un quadro normativo inadeguato, che àncora la cura esclusiva dei figli alla figura femminile.

Cosa vuol dire essere padri in carcere

Sergio è detenuto nel carcere di Massa. La sua festa del papà è stata una data appesa al calendario, “dispersa fra tutti gli altri giorni”. «Mi ha ricordato che anch’io sono un padre. Lo ha fatto in modo matematico, quasi asettico: tra i vari ricordati di lavarti i denti, di fare questo o quello, fa capolino anche un ricordati che sei padre», scrive in una lettera indirizzata alla figlia. «Subito la mente corre indietro nel tempo e inizia a frugare nei cassetti della memoria. Le immagini del passato tornano più vivide che mai, chiudo gli occhi e ti vedo come una bambina di cinque anni. Di te conservo i colori e i suoni del tempo trascorso assieme. Da allora sono passati oltre sette anni. Un’eternità trascorsa senza poterti né vedere né parlare e così un giorno di festa diventa, per me, triste e vuoto. Poi la svolta. Leggendo un frammento tratto da Poesie di Camillo Sbarbaro, la speranza si riaccende e, con un colpo di spugna, cancella via ogni traccia di malinconia».

Padre, se anche tu non fossi mio padre,
se anche fossi un uomo estraneo,
fra tutti quanti gli uomini
già tanto pel tuo cuore fanciullo t’amerei.

Rinchiuso “in un luogo in cui contano solo la verità tecnica e i fatti”,“che non lascia spazio ai sentimenti”, Sergio scopre che può essere ancora padre, e come tale degno di rispetto e di amore. «Ma non per via di un legame di sangue, di una paternità fisiologica che la moderna scienza può appurare, piuttosto per i sentimenti che ci legano in una sorta di imprinting che si crea quando gli occhi di un padre e quelli della figlia appena nata si incrociano per la prima volta e nasce una consapevolezza reciproca che durerà per tutta la vita», scrive alla figlia. Ricorda bene un lontano momento di perfetta corrispondenza. «Era una tiepida notte di maggio ed era il mio turno per allattarti: preparato il biberon ti vengo a prendere dalla culla. Sei sveglia e un pochino irrequieta per la fame. Approfittando della magnifica notte mi sposto in giardino dove una splendida luna inonda tutto di luce argentea. Mi sistemo nella veranda e quando ti avvicino il biberon tu lo afferri e inizi a tirare il latte con foga. Placata la fame riprendi fiato emettendo un sospiro profondo e poi riprendi a poppare con calma. In quel momento avverto qualcosa. I tuoi occhi, ancora di colore indefinito, sono fissi su di me. Lasci il biberon e inizi a toccarmi la mano con cui ti aiuto a tenerlo, poi mi afferri un dito e lo stringi con la tua piccola manina paffuta e, per la prima volta avverto consapevolezza nel tuo sguardo. Lentamente chiudi gli occhi e scivoli nel sonno. Ancora emozionato da quel contatto alzo gli occhi e, con sorpresa, vedo il prato e le piante ricoperti da centinaia di lucine lampeggianti. Affascinato dalla magia di questa notte riesco persino a credere che le stelle sono scese per vederti. La suggestione continua finché una lucina, volando in modo incerto, si avvicina fino a posarsi su di me svelando l’arcano. Centinaia di lucciole si sono date appuntamento in giardino. Scorgo un sorriso disegnarsi sulle tue labbra e un’intensa emozione mi avvolge mentre gli occhi si inumidiscono».

La vita dei detenuti padri

Giovanni è un volontario di Telefono Azzurro. «Opero nel carcere di Reggio Emilia, che è un carcere maschile. Il nostro progetto consiste nell’accogliere la mamma con i bambini nel momento in cui vengono a colloquio con il papà». Li accolgono all’interno di una ludoteca, piena di colori, di giochi e disegni, frequentata dai più piccoli. «Cerchiamo di creare uno spazio di gioco con il papà. Il nostro obiettivo è quello di ricreare il nucleo familiare». Le ore di colloquio al carcere di Reggio Emilia vanno dalle 10 alle 15 ore settimanali. Un tempo che varia da carcere a carcere e in base alla buona condotta del detenuto. Secondo il diciassettesimo rapporto di Antigone sono 60mila figli di genitori in carcere. «E consideriamo che il numero sia calcolato per difetto», spiega Claudio Paterniti di Antigone. «Partendo da questo, il carcere ha una forza escludente, quella di recidere in buona parte i legami sociali dal contesto in cui si trova e quindi agisce sulla genitorialità». E i detenuti padri non vedono i propri figli e quando li vedono, li incontrano in un contesto non esclusivo, con l’occhio dell'agente, in una sala colloqui dove ci sono molte altre persone.

Una possibile soluzione

Cosa si dovrebbe fare? «Ricorrere meno al carcere. Negli istituti penitenziari, i detenuti per reati di stampo mafioso sono in tutto un quinto rispetto alla popolazione carceraria totale, dunque una parte minoritaria. Circa 20mila detenuti invece hanno una pena o un residuo di pena che è inferiore a tre anni. In Italia, quando si ha un residuo pena inferiore a quattro anni si può ricorrere alle misure alternative. E questo permetterebbe di salvare il legame padre-figlio». La genitorialità al femminile è più tutelata: grazie alla legge del 26 luglio 1975, le condannate madri possono assistere il figlio. In Italia, con due interventi normativi, la cosiddetta “Legge Finocchiaro” (legge 40/2001) e la legge 62/2011, si erano estesi i limiti per “punire” la madre autrice di reato fuori dal carcere, anzitutto in detenzione domiciliare, a seconda dell’età del bambino. Sotto l’anno di età del figlio, il “rinvio” della pena è obbligatorio, fino a tre anni è il giudice a decidere, anche se il carcere può diventare un’opzione possibile. «Per i padri i limiti sono più stringenti. È una questione culturale. Si tende a tutelare il legame con la madre. Questo perché la cura genitoriale è ancorata alla figura femminile. Sarebbe interessante se la detenzione la si approcciasse di più dalla prospettiva dei figli privati dei genitori. Concedendo più permessi per il figlio e non con la scusa del figlio. Ci vuole un cambiamento culturale, ma è quella la strada da perseguire».

Le difficoltà dei padri separati in Italia

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