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Definirla 'droga dello stupro' è pornografia giornalistica

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Gli arresti eccellenti delle ultime settimane – Claudia Rivelli, sorella di Ornella Muti, e il sacerdote di Prato Don Francesco Spagnesi – e l’indagine che ha coinvolto Luca Morisi, capo della comunicazione di Matteo Salvini, hanno riportato sui titoli dei giornali la famigerata espressione: “droga dello stupro”. Questa definizione, in voga nei media mainstream da anni, riguarda, in genere, alcuni tipi di sostanze, in particolare GHB, GBL e Rohypnol.

La 'droga dello stupro' e i giornali

Quando sentiamo “droga dello stupro” l’associazione è inevitabile: nella nostra mente appare, vivida, l’immagine di una persona che “corregge” il drink di qualche ragazza a sua insaputa. L’indignazione e la rabbia conseguenti sono reazioni automatiche – e forse proprio ricercate da chi usa questa espressione. In realtà, la definizione non ha in sé valore scientifico – né, tantomeno, giornalistico. Le classiche sostanze associate agli abusi sessuali (in particolare dopo il caso inglese di Reynhard Sinaga, studente condannato per aver sedato e violentato più di 40 uomini) si trovano in basso negli studi che, su PubMed, collegano stupri e uso di droghe. Ai primi posti ci sarebbero etanolo, cannabinoidi, benzodiazepine e amfetamine. Complice la difficile rintracciabilità, ad esempio, del GHB, molecola endogena sintetizzata come sedativo negli anni Sessanta, che viene rapidamente metabolizzata dal corpo umano.

L’etichetta di “droga dello stupro” è talmente ampia che, in un articolo su WebMD della dott. Jennifer Casarella dell’Emory Medical School, di marzo 2020, proprio in forza dei risultati già citati, anche l’alcool è stato inserito nella lista delle “Date-Rape Drugs”. Il rischio dello sdoganamento di questa espressione è quindi altissimo proprio per la mancanza di contorni netti attorno alla definizione “droga dello stupro”. Al netto, invece, di una fortissima connotazione morale.

Proprio per la sua natura non scientifica, per il fatto che mette così tante sostanze sotto lo stesso cappello (che spaziano dall’alcol agli psicofarmaci, dalle sostanze illegali a quelle legali) e per il suo carico moralmente negativo e infamante, dovremmo evitare l’espressione “droga dello stupro”, soprattutto quando parliamo di casi non ancora passati in giudicato. Eppure, uno dei giornali più famosi di Milano titolava sul caso Morisi: "Il liquido era droga dello stupro. Ce l'ha data lui". Una frase che, al netto di un virgolettato problematico attribuito ai due ragazzi fermati fuori da casa sua in possesso di sostanze stupefacenti, si accompagnava a un contesto descritto in maniera altrettanto morbosa: “Dopo il festino con altri quattro uomini”, ecco trovata “la droga dello stupro”.

In queste righe c’è tutta quella pornografia giornalistica tipica di una certa cronaca, che proprio dalle fauci della comunicazione salviniana raccoglieva le storie. Una metodologia alla quale dovrebbe contrapporsi una più alta etica professionale da parte di chi informa, ogni giorno, il resto del Paese.

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