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Chi è il re di Staten Island

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Judd Apatow è tornato con Il re di Staten Island, al cinema dal 30 luglio e già disponibile in streaming. Apatow è come l’amico appena dimesso dal rehab, che all’inizio ti sembra il solito cazzone di sempre, ma poi, tra una parolaccia e l’altra, pronuncia qualche massima veramente profonda, ti guarda negli occhi e capisci che è cambiato. A questo giro, il regista americano è un po’ meno tormentato, più maturo e deciso a dimostrarlo. Anche se significa fare un film (apparentemente) meno scoppiettante.

Un protagonista che non cresce

Il protagonista de Il re di Staten Island è Scott, è un ragazzotto che si rifiuta di cambiare pelle per trasformarsi in un adulto. Così si parcheggia sul divano con lo stesso edonismo con cui si parcheggiavano Ben e i suoi amici in Molto incinta: è un bighellonare che ti fa sentire sporco, e che si trasforma in critica sociale, a patto di non prenderla troppo sul serio. Il tema è quello dello scollamento tra età anagrafica ed età mentale, esemplare sin dai tempi di 40 anni vergine, in cui il regista aveva messo in scena uno Steve Carell incapace di perdere la verginità. Nel nuovo Apatow ci sono ancora le parolacce, l’alcol e il pressappochismo americano, ma l’accumulo di volgarità è frenato (a sorpresa) da una regia delicata. Apatow è diventato grande, e si può permettere di cedere il passo, in questo caso, a Pete Davidson.

Pete Davidson in stato di grazia

In effetti, Il re di Staten Island è Pete Davidson. Questo 26enne comico del Saturday Night Live era lì lì per buttare via la sua vita, tra il lutto paterno mai superato e qualche problema mentale (come dice nel film, senza andare troppo per il sottile: «Non è tutto a posto, lì sopra»). A partire dalla sua esperienza, Davidson ha scritto la sceneggiatura assieme al regista, orbitando attorno a una domanda cruciale: cosa sarebbe successo se non avessi trovato lavoro e non fossi diventato un comico? Avrei continuato a sopravvivere, aggrappandomi alle droghe leggere e a un po’ di svogliatissimo sesso occasionale? In questo senso, Il re di Staten Island ha un intento catartico, ma senza le pretese di ergersi a manifesto generazionale. A differenza degli altri film di Apatow, infatti, non si cura troppo di dipingere l’America o di far ridere, anche se qua e là infila un paio di battute sferzanti sulla politica trumpiana. Davidson-Scott si culla nella morte del padre perché ha bisogno di un alibi: il risultato è una pellicola intimista tutta a servizio di un interprete con i controfiocchi, capace di rendere nostri i propri tic, le idiosincrasie, le paure. In Davidson, il regista ha visto qualcosa di suo, tanto da interrompere un silenzio cinematografico durato 5 anni (solo parzialmente redento dalla serie tv Love). Smessi i panni del principe sboccato della commedia, ha deciso di fare quello che i suoi personaggi non fanno, ossia correre il rischio di crescere. Alzarsi dal divano non è cosa semplice, letteralmente e metaforicamente: Davidson lo sa, Apatow pure, ed insieme vi strapperanno il cuore a pezzettini.

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